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I MINORI STRANIERI SOLI DI CASA FRANCESCO

Nel 2015 la Casa della Carità ha dato vita a Casa Francesco, dedicata all’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

Se durante l’estate appena passata si è parlato moltissimo di minori stranieri non accompagnati, dato il forte aumento degli arrivi via mare, c’è da dire che il fenomeno non è nuovo. La Casa della Carità se ne occupa dal 2011, quando arrivarono a Milano decine di ragazzi soli, provenienti soprattutto dal nord Africa in conseguenza delle cosiddette “Primavere arabe”.

A seguito di queste prime accoglienze, nel 2015 la Casa della Carità ha dato vita a “Casa Francesco, una struttura composta da due appartamenti, dedicata all’accoglienza di ragazzi stranieri non accompagnati, minorenni o neo maggiorenni. Da allora sono passati da Casa Francesco una cinquantina di ragazzi. Per alcuni di loro l’Italia è la meta finale di un viaggio durato mesi se non anni.

Abbiamo incontrato l’équipe di Casa Francesco (composta da Roberto Gala, Marwa Mokhtatif, Noemi Nicoli e Stefano Spadoni), per approfondire questa tematica.

Chi sono i minori stranieri ospiti di Casa Francesco

Casa Francesco gruppo
Un gruppo di ospiti di Casa Francesco durante una serata in appartamento

Nei due appartamenti di Casa Francesco, che ha sede nel quartiere di Ponte Lambro a Milano, sono attualmente accolti 8 ragazzi provenienti da Egitto, Bangladesh, Albania, Kosovo e Tunisia, che hanno tra i 16 e i 18 anni compiuti.

Un appartamento è dedicato ai minorenni e a quei neo maggiorenni che hanno più difficoltà o fragilità. Quando si raggiunge la maggiore età o si comincia a lavorare si passa poi nell’altro appartamento. Se nel primo appartamento c’è una gestione più comunitaria della quotidianità, con una maggior presenza di educatori ed educatrici, nel secondo gli ospiti hanno una maggiore autonomia.

I ragazzi arrivano su segnalazione dei Servizi sociali del Comune di Milano o da altre comunità di prima accoglienza e sono ospitati fino al compimento della maggiore età. Se necessario, se richiesto dal progetto educativo o se c’è un provvedimento di “prosieguo amministrativo” (ossia la possibilità per i minori stranieri non accompagnati, che hanno un permesso di soggiorno per minore età e stanno per compiere 18 anni, di proseguire il proprio percorso di accoglienza e integrazione in Italia fino al compimento dei 21 anni), i giovani rimangono in accoglienza anche dopo i 18 anni.

Le motivazioni che spingono a partire

Le motivazioni che spingono questi ragazzi a partire sono principalmente di ordine economico: «Soprattutto per quanto riguarda l’Egitto, l’Italia è conosciuta grazie ai racconti positivi dei coetanei già partiti e di coloro che vivono qui da tempo. E più aumentano le voci, più il viaggio sembra essere facile e fa meno paura. Per questo molte famiglie mandano qui i figli, con l’obiettivo di ottenere un miglioramento della propria condizione economica», esordisce Roberto Gala, coordinatore dell’équipe di Casa Francesco.

«Questa dinamica si è rafforzata con l’avvento dei social media, dove quotidianamente i ragazzi che sono qui pubblicano foto o video dove ostentano un’immagine di sé di successo, che però spesso non corrisponde alla realtà», gli fa eco Noemi Nicoli.

In alcuni paesi, come l’Albania, sembra invece che vengano messe in atto vere e proprie strategie: «I ragazzi vengono mandati in Italia a trascorrere gli ultimi anni prima della maggiore età, per formarsi in un sistema scolastico migliore e che può offrire loro più scelta, per poi tornare in patria a lavorare», dice ancora Noemi.

Ma se è vero che fino a qualche anno fa a partire erano i figli considerati più forti e più sicuri di farcela, negli ultimi tempi arrivano anche i ragazzi più fragili o con problematiche psichiche, considerati spesso un peso dalle famiglie.

Il percorso di accoglienza

Casa Francesco pulizie
Ospiti di Casa Francesco impegnati nelle pulizie dell’appartamento

Educatrici ed educatori di Casa Francesco accompagnano i giovani ospiti all’autonomia, sostenendoli in varie attività: dalla regolarizzazione dei documenti al consolidamento della lingua italiana, dall’accesso ai corsi di formazione professionale all’inserimento lavorativo, fino alla ricerca di un’abitazione.

Il numero ridotto di ospiti di Casa Francesco, sottolineano gli operatori, consente un lavoro educativo migliore e i ragazzi riescono a vivere la comunità come una casa, dove imparano a prendersi cura di sé e degli altri.

Il tema del lavoro, in particolare, è molto delicato. I ragazzi, infatti, arrivano in Italia con un compito ben preciso: trovare un lavoro e mandare alla famiglia i soldi guadagnati. «Egiziani e albanesi hanno reti forti di connazionali e fanno più fatica a sottrarsi alle dinamiche parentali o della comunità di appartenenza. Per esempio se uno zio ti dice: “vieni a lavorare da me”, non puoi sottrarti, perché è considerato come un secondo papà. C’è quindi la grande fatica di far capire loro che prima di cominciare a lavorare ci sono degli altri passaggi che vanno fatti», spiegano gli operatori.

Che aggiungono: «I bengalesi invece hanno un’urgenza forte di lavorare per supportare la famiglia o ripagare il debito del viaggio. Quindi il lavoro che facciamo in questo caso è focalizzato sulla cifra da mandare a casa, per far sì che la famiglia non aumenti continuamente le sue richieste e il ragazzo possa avere risorse sufficienti per vivere in Italia».

Casa e lavoro nel segno della legalità

Il lavoro educativo a Casa Francesco verte molto anche sul tema della legalità, sia rispetto al lavoro che alla casa: «La nostra proposta passa dalla conoscenza dei diritti del lavoratore e, attraverso il Celav – Centro di Mediazione al Lavoro del Comune di Milano, di una via legale per la ricerca di un’occupazione, per contrastare il lavoro nero, che per loro è molto attraente, perché possono essere subito indipendenti economicamente».

Molto importante è anche la ricerca di una casa, in vista dell’uscita dalla comunità: «Per questi ragazzi quello della casa è un vero problema, perché non hanno molte opzioni. Anche chi lavora e ha un buono stipendio, fatica a trovare un appartamento, sia per gli elevati costi in città sia perché nessuno vuole affittare agli stranieri. E per questo rischiano l’esclusione sociale», spiega Marwa Mokhtatif.

Quando si avvicina la fine dell’accoglienza, in base ai desideri del ragazzo e alle disponibilità economiche, viene cercata una sistemazione: «Quando possibile, proponiamo uno degli appartamenti della Casa della Carità, dove possono imparare a gestire l’affitto e le spese, pur in un contesto protetto in cui mantengono una relazione con noi. Altrimenti proponiamo loro i pensionati, che hanno prezzi accessibili. Alcuni invece preferiscono rivolgersi alla rete dei connazionali», raccontano gli operatori, che anche in questo caso lavorano sul piano della legalità, per far sì che una volta usciti dalla comunità i ragazzi non si trovino ad abitare in contesti poco adatti, come appartamenti sovraffollati o affitti in nero.

Una corsa contro il tempo

Il percorso dei minori stranieri non accompagnati e il compito di educatrici ed educatori che li seguono non è facile, perché occorre raggiungere tutti gli obiettivi di cui si parlava entro il compimento del 18° anno, quando – salvo proroghe – i ragazzi devono lasciare il progetto di accoglienza, come previsto dal “SAI”, il Sistema di Accoglienza e Integrazione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati gestito dal Comune di Milano, con cui Casa Francesco è convenzionata.

«Il SAI ha procedure e scadenze molto rigide, per cui si sa già mesi prima quando un ragazzo deve uscire dalla comunità, per poter programmare altri inserimenti e non avere mai posti vuoti. Questa però è una gestione emergenziale, che genera molta pressione e ha una serie di problematiche», sottolineano.

Innanzitutto c’è la questione dei documenti, che è vitale e però richiede molto tempo. Se gli assistenti sociali che hanno in carico i ragazzi non sono lungimiranti a programmare per tempo l’iter per l’ottenimento del permesso di soggiorno, i ragazzi rischiano di essere senza documenti e questo significa, per esempio, che non possono avere accesso al sistema sanitario o attivare un contratto di lavoro.

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Una delle gite organizzate per gli ospiti di Casa Francesco

C’è poi il tempo necessario a imparare l’italiano, fare corsi di formazione e tirocini, cercare un lavoro e una casa. Ma, soprattutto, c’è il tempo che serve a instaurare una relazione di fiducia con gli educatori, senza la quale tutto questo processo non è possibile: «La rigidità del sistema centrale non riconosce quella parte di lavoro educativo in cui ci sono dei tempi che non possiamo stabilire a tavolino, perché ogni persona ha ritmi diversi per stabilizzarsi e ogni inserimento necessita di tante energie. Se un ragazzo arriva che ha 16 anni è più facile, ma se arriva che ha quasi 18 anni è una vera e propria corsa contro il tempo», commenta Noemi.

A peggiorare la situazione, segnalano gli operatori di Casa Francesco, ci sono poi i ritardi nelle risposte dell’istituzione per i compiti che sono di sua competenza. Avendo tempi così stretti, questi ritardi generano spesso ansia nei ragazzi, complicando la convivenza con gli altri, e frustrazione negli operatori che li seguono quotidianamente.

A essere rigida all’interno del sistema SAI è anche la copertura delle spese, che, per esempio, non comprende attività sportive o ricreative: «Con le sole risorse del SAI alcuni pezzi di cura e relazione non sono possibili. Banalmente, organizzare una festa di compleanno, cucinare qualcosa di particolare e mangiare insieme nei weekend, organizzare delle gite… questi sono momenti educativi fondamentali e se li togliamo, del nostro lavoro rimane solo la parte burocratica, ma così non si costruisce l’inclusione», dice Stefano Spadoni.

«Fortunatamente – aggiungono gli operatori – grazie al sostegno di enti come l’Associazione Amici di Francesco e dei singoli donatori della Casa della Carità riusciamo ad affrontare anche alcune spese extra e a proporre esperienze che sono fondamentali per degli adolescenti, come le attività sportive, perché aiutano i nostri ragazzi a costruire relazioni fuori dai loro schemi, creando punti di contatto anche con coetanei italiani; li aiutano a integrarsi e a capire come si vive in Italia e permettono una convivialità differente».

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