Una riflessione della Casa della Carità sul lavoro fuori dal carcere, a seguito della drammatica vicenda che ha coinvolto un detenuto della Casa di Reclusione di Bollate.
La drammatica vicenda di Emanuele De Maria, detenuto del carcere di Bollate che, mentre era fuori dal carcere per lavorare, avrebbe ucciso una collega, ferito un’altra persona e infine si è tolto la vita, ha riacceso il dibattito sull’opportunità di concedere possibilità di lavoro esterno a persone condannate per reati violenti.
La Casa della Carità, fin dall’esordio della sua attività, opera con il carcere di Bollate, accogliendo molte persone che hanno finito di scontare la loro pena, accompagnandole nella ricerca di casa e lavoro. In via Brambilla ci sono anche 34 persone detenute che svolgono attività di volontariato in regime di “Articolo 21”, in permesso o in affidamento1. Nell’ultimo anno, inoltre, 42 persone hanno avuto accesso a una pena alternativa, sotto forma di lavori di pubblica utilità o messa alla prova. La Fondazione è anche attiva nella Casa Circondariale di San Vittore, con iniziative culturali che coinvolgono giovani detenuti e studentesse e studenti di due licei milanesi, promosse dalla Biblioteca del Confine.
La Casa della Carità quindi si impegna ogni giorno affinché le pene abbiano una funzione realmente rieducativa, come previsto dalla Costituzione. Per questo, quanto accaduto ci ha profondamente colpiti. Ne abbiamo parlato con Fiorenzo De Molli, responsabile del settore “Andare verso”, che da 20 anni opera anche come educatore nel carcere di Bollate e segue le persone in Articolo 21 che fanno volontariato in via Brambilla.
Qual è l’esperienza della Casa della Carità dentro il carcere e con le persone detenute che hanno la possibilità di uscire per fare volontariato o per lavorare?
A inizio 2005, dopo appena tre mesi dall’apertura della Casa, don Virginio Colmegna ha voluto sottoscrivere un primo protocollo di collaborazione con la casa di reclusione di Milano – Bollate, allora diretta da Lucia Castellano, per poter incontrare le persone che avevano dei permessi, ma non avevano un posto dove andare oppure che erano a fine pena e non sapevano dove vivere una volta fuori o non avevano nessuno ad aspettarle. Così siamo partiti ad accogliere ex detenuti e ad andare a trovare chi era dentro. Un’accoglienza interessante di quegli anni, per esempio, fu quella di tantissime donne, tendenzialmente sudamericane, che venivano arrestate in aeroporto perché trasportavano droga e che vennero scarcerate per via dell’indulto del 2006. Stavano da noi qualche tempo in attesa di tornare nel loro Paese.
L’esperienza è poi proseguita negli anni, evolvendosi. Un altro momento interessante c’è stato quando è emersa l’esigenza delle persone detenute di fare attività di volontariato. Dal 2013 per qualche anno, insieme alla nostra psichiatra Silvia Landra, che lavorava e lavora tuttora a Bollate e che ha lavorato anche a San Vittore, e con le volontarie della Casa, due volte al mese, in carcere, abbiamo fatto in orario serale una formazione al volontariato per i detenuti che si erano riuniti in una piccola associazione chiamata proprio “Articolo 21”, iniziando poi a fare volontariato da noi. Detenuti ed ex detenuti hanno anche partecipato come volontari ai progetti di accoglienza estiva dei profughi in arrivo a Milano, che la Casa della Carità ha portato avanti dal 2014 al 2016 con gli Oratori di Affori e Bruzzano.
Come si accede all’attività di volontariato fuori dal carcere?
Gli educatori del carcere ci segnalano alcune persone che, nel loro percorso di riscatto sociale, sono secondo loro pronte per fare un’esperienza di questo genere. Io poi vado a incontrarle, le conosco, do la disponibilità e costruiamo assieme la presenza in Casa della Carità, anche tenendo presente le caratteristiche di ogni persona ed eventuali professionalità, per cui c’è chi aiuta nella gestione del guardaroba, c’è chi viene a pulire le docce, c’è chi apre la porta e accoglie le persone, c’è chi fa lo sportello legale, c’è chi segue aspetti tecnologici… abbiamo diversi tipi di esperienze.
Ci sono quindi dei passaggi prima che una persona possa essere autorizzata a uscire per lavorare o fare volontariato, che sono dati da un lato dai “tempi tecnici” dopo i quali una persona può accedere a dei benefici e poi è anche verificato il percorso personale di ognuno; c’è un confronto tra educatori e psicologi, l’équipe del carcere… non sono mai decisioni banali o passaggi automatici e ciascuno ha il suo percorso.
Come ti spieghi quello che è successo?
Davanti a un fatto del genere si rimane senza parole, ma nella vita non si può prevedere sempre tutto; esistono l’imponderabile, il male, la debolezza; è il mistero insondabile della persona umana. Ognuno compie un cammino unico, ciascuno deve fare i conti con la propria storia, con le proprie ferite, con ciò che è stato. C’è chi riesce a rimettersi in piedi, a cambiare, e c’è chi, invece, non ce la fa: è qualcosa di molto delicato e non sempre spiegabile. La domanda che mi faccio è perché quest’uomo non è riuscito a parlare di quello che stava vivendo?
Io non sono né psichiatra, né psicologo, né criminologo. Non ho gli strumenti per interpretare tutto. Posso solo parlare da educatore, vedo le persone che vengono da noi, osservo come si comportano, come vivono questa possibilità. C’è chi si apre, chi si confida, chi si confronta e chi invece preferisce tenere un profilo basso e riservato. Ma in ogni caso, davanti a ciascuno di loro, come davanti a qualsiasi persona che si rivolge alla Casa, io sono cosciente che “devo togliere i calzari”, come Mosè danti al roveto ardente (Esodo 3, ndr) perché la vita di ciascuno è sacra; non posso entrare nella vita dell’altro come un bulldozer a giudicare, a dare indicazioni, offrire soluzioni. Bisogna fermarsi, ascoltare, rispettare il mistero di ogni percorso umano.
In questi giorni, dopo questo grave fatto di cronaca, il timore è che i percorsi lavorativi o di volontariato fuori dal carcere vengano messi in discussione. Perché invece, in base alla nostra esperienza, è importante che questo non avvenga e che anche a persone che hanno commesso dei reati gravi si possa dare questa possibilità?
Perché generalizzare fa sempre molto male. Come non è vero che gli immigrati sono tutti delinquenti, non è vero che tutti i preti sono pedofili. Come non è vero che tutti i politici sono ladri, non è vero che tutti i detenuti sono dei potenziali nuovi criminali. Il giustizialismo, quindi, non serve a niente.
E invece, che persone che hanno alle spalle anche anni di carcere possano sperimentare la libertà penso sia un’esperienza umana molto molto forte. Qui trattiamo tutti loro da colleghi, come tutti gli altri volontari. Non sono oggetti, ma sono soggetti. noi contribuiamo a creare le condizioni che possono favorire un cambiamento.
L’ultimo aspetto è che ognuno può esercitare un’attività che fa sentire utili. Io penso che questa sia tra le cose più belle che ci sia: che delle mani che hanno fatto il male, che hanno commesso reati anche grossi, compiono cose buone, cose belle e questo fa anche dire loro “so fare del bene”.
Approfondimenti
- Leggi l’intervista con S.A., volontaria della Casa della Carità in Articolo 21
- Dentro e fuori dal carcere. Guarda l’intervista a Natale, ex ospite della Casa della Carità
- Il regime di “Articolo 21” (con riferimento all’Articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario) prevede per i detenuti la possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa o di volontariato. Le persone detenute “in permesso”, dopo che hanno scontato una parte della pena (un quarto, o metà, a seconda della gravità del reato), hanno dei giorni di permesso per coltivare interessi familiari, culturali o di lavoro. L’affidamento in prova è una misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammesse persone detenute con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai tre anni. L’affidamento può essere ai servizi sociali o in un ambiente protetto. ↩︎