Storie

DAL CARCERE ALLA SOCIETÀ: IL REINSERIMENTO POSSIBILE

La testimonianza di S.A. che da un anno due volte a settimana esce dal carcere per svolgere un’attività di volontariato alla Casa.

La Casa della Carità ha sempre abitato i confini dell’umano e il carcere è sicuramente uno di questi. Per la Fondazione è quindi stato naturale occuparsi di carcere già dai primi mesi della sua attività.

Fin dal 2005, infatti, gli operatori della Casa sono entrati nel Carcere di Bollate per incontrare chi aveva dei permessi e chi stava per uscire, ma non aveva nessuno ad aspettarlo. Così la Casa ha accolto molte persone una volta uscite, accompagnandole nella ricerca di casa e lavoro.

Dal 2013, questo rapporto con il carcere di Bollate si è ulteriormente intensificato, con diversi detenuti e detenute che hanno iniziato a prestare ore di volontariato alla Casa della Carità, grazie a un fruttuoso lavoro con gli educatori della casa di reclusione e a una formazione fatta insieme all’Associazione Volontari Casa della Carità.

«Sono state più di 200 le persone che hanno svolto alla Casa attività in Articolo 211, diventando volontari tra volontari; operatori tra operatori, svolgendo i lavori più disparati: dalla portineria alla pulizia delle docce. Alcuni di loro ci hanno anche dato una mano nei due anni di accoglienza straordinaria dei profughi nella parrocchia di Bruzzano. Molti poi sono rimasti in Oratorio, occupandosi delle pulizie insieme ai genitori, rendendo insignificante lo stigma nei confronti delle persone detenute», racconta Fiorenzo De Molli, responsabile dei volontari in Articolo 21.

E aggiunge: «A noi non interessa il reato che hanno commesso, di molti non lo sappiamo nemmeno. Ci interessa che mettano in gioco la loro capacità di essere persone adulte e che imparino uno stile. Qualcuno di loro è rimasto a lavorare con noi e anche con gli altri, ora che sono persone libere, è comunque rimasta una relazione di amicizia».

Oggi, tra la ventina di persone impegnate come Articolo 21 nella Casa, c’è anche S.A., che ha condiviso con noi la sua testimonianza.

La storia di S.A., volontaria alla Casa

«È stato strano arrivare qui… avevo appena messo il naso fuori dal carcere dopo 14 anni e già questa è una sensazione straniante, perché esci in autonomia e torni a contatto con quella che è la vita “normale”. Poi quando sono arrivata alla Casa ho trovato ad accogliermi Fiorenzo (De Molli, responsabile del Settore Andare Verso, ndr) che è un “orsetto abbraccia tutti” e Peppe (Monetti, responsabile dello Sportello Legale, ndr), che se è possibile lo è ancora di più. Per me, che sono sempre stata abbastanza chiusa, tutto questo è stato travolgente».

A raccontarlo è S.A., che proprio in queste settimane “celebra” il suo anno da volontaria in Articolo 21 alla Casa della Carità e che ha condiviso con noi la sua testimonianza di persona detenuta, che sta svolgendo un percorso di reinserimento fuori dal carcere.

Come sei arrivata alla Casa e cosa significa per te avere la possibilità di svolgere attività di volontariato fuori dal carcere?

A farmi arrivare qui è stata la dottoressa Silvia Landra, che opera nella Casa e che fa parte dell’équipe di San Vittore, perché ha pensato che questo fosse un contesto ideale per darmi la possibilità di uscire un po’ di più e anche per far fruttare quello che avevo imparato, dal momento che un anno prima mi ero laureata in Giurisprudenza.

Che cosa significa per te lavorare alla Casa della Carità, a contatto con persone fragili e con molte difficoltà?

Inizialmente è stato strano. Non solo perché sono entrata in contatto con moltissime persone, ma anche perché mi trovo in un contesto in cui, pur conoscendo la mia condizione, nessuno mi fa domande importune, mi guarda con diffidenza o mi fa pesare il fatto che sono qui perché me l’hanno imposto. Non in tutti i contesti è così…

E poi lavorare qui ha cambiato la mia prospettiva. In carcere spesso senti di essere tra gli ultimi degli ultimi, ma qui mi sono resa conto che gli ultimi sono ovunque e così ho cambiato prospettiva nel guardare il bicchiere mezzo pieno: è vero che io faccio parte degli ultimi e che dovrò ancora tornare lì dentro per un po’ di tempo, però qualcosa me lo sono costruita, come una formichina. Qui invece arrivano persone che speranze ne hanno poche e quando faccio qualcosa per loro, anche se è poco, e ti guardano con il sorriso, mi dico che allora qualcosa lo sto restituendo anche se magari è un millesimo di quello che ho fatto. Un millesimo oggi uno domani, magari non restituisco tutto, ma questo mi fa star bene.

Sul carcere e sulle persone detenute ci sono ancora molti pregiudizi. Secondo te, come si può fare in modo che le persone fuori possano superare questi pregiudizi?

Penso che le porte del carcere debbano essere un pochino più aperte. A San Vittore, per esempio, si organizzavano nel giardino del reparto femminile degli aperitivi aperti a persone esterne, preparati da noi come momento conclusivo dei corsi della Libera scuola di cucina. E prima dell’aperitivo i partecipanti avevano la possibilità di vedere alcuni spazi del carcere e dialogare con noi.

Forse una cosa del genere, se fosse più strutturata, potrebbe aiutare a far conoscere e capire il contesto, perché la gente ha paura di ciò che non conosce e tende ad allontanarlo dà se, convincendosi che se una cosa è lontana allora non la tocca. E invece credo che bisognerebbe entrare nell’ottica che come è successo di finire in carcere alle oltre 60mila persone detenute che ci sono oggi, può succedere a chiunque. Quelle porte si spalancano non solo per gli ultimi degli ultimi, ma possono spalancarsi anche per i primi dei primi.

Quindi conoscere un po’ di più il carcere e quelle realtà che si occupano del reinserimento delle persone detenute, perché danno loro la possibilità di stare fuori e stare in un contesto normale e permettono a chi sta fuori di capire che anche chi esce dal carcere qualche diritto ce l’ha ancora.

Che cos’è che fa paura, secondo te?

Una cosa che spaventa tanto secondo me è la recidiva, che attualmente in Italia è circa al 70%, che fa pensare che se le persone una volta uscite tornano a delinquere, allora è meglio lasciarle dentro. Ma anche questo dato andrebbe spiegato: se io entro in carcere senza niente, senza una casa, senza un lavoro ed esco a fine pena che ancora non ho niente, che cosa faccio? Dove vado se non ho un posto che mi accoglie? E se vengo guardato male e non trovo nessuno che mi prende a lavorare? Per un po’ posso vivere di espedienti, ma poi 90 su 100 torno a commettere un reato.

Inoltre, buona parte delle persone detenute deve scontare una pena inferiore ai 3 anni e il nostro Codice prevede che per una pena sotto i 3 anni – salvo casi in cui ci siano specifiche aggravanti – l’esecuzione venga sospesa e la persona abbia la possibilità di presentare, entro un mese, la domanda per rimanere fuori in misura alternativa. Molto spesso però le persone rientrano in carcere, perché non hanno il requisito fondamentale per le misure alternative e cioè una casa.

Io ricorderò sempre, e le ho citate nella mia tesi, le parole di Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale: «La dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un ‘premio per i buoni’ e quindi non può essere tolta ai ‘cattivi’». Quindi un briciolo di dignità rimane anche in quelli che entrano in carcere, ma se nel momento in cui devo uscire e mi devo preparare, fuori trovo il nulla anche quel briciolo di dignità che ho dentro faccio fatica a portarmela avanti.

Che cosa serve, a tuo giudizio, per far in modo che quando una persona esce dal carcere abbia in mano qualcosa che la aiuti a reinserirsi nella società e anche a non commettere nuovamente un reato?

Per prima cosa penso che ci vorrebbero più legami con chi opera all’esterno, per esempio con associazioni o cooperative, perché quelle che ci sono sono poche. Ma c’è una carenza cronica di tante cose: agenti di polizia penitenziaria, educatori, personale sanitario, magistrati di sorveglianza…

Poi bisognerebbe dare più fiducia alle persone detenute. Quando entri in carcere, sei allo sbaraglio più totale e ti trovi smarrito, in un meccanismo dove anche le cose più semplici sono complesse; per esempio, servono una marea di autorizzazioni per fare qualunque cosa. Per esempio, se hai un banale mal di testa non puoi prendere una medicina quando ti pare: devi chiedere un’autorizzazione e pregare che quel giorno ci sia il medico che te la firmi. Per una donna, anche avere il ciclo può essere un problema, perché a ognuna viene dato un pacchetto di assorbenti ogni tanto e devi farteli bastare e non ne puoi chiedere altri; solo se hai risorse te li puoi comprare… a 4 euro al pacchetto.

Dentro la tua quotidianità è controllata al 90% da qualcun altro. Io ricordo la prima volta che sono uscita in permesso, accompagnata da una volontaria, l’ho guardata e le ho chiesto: ma posso fumare una sigaretta? Perché il mio cervello non aveva realizzato che non dovevo più chiedere per ogni piccola cosa. Adesso sono libera di decidere del 50% della mia quotidianità e questa cosa scompensa un pochino; se non sei abbastanza preparato, rischi di fare delle cavolate. E solo di questo poi si parla: ogni volta che apro un giornale e leggo notizie che parlano di chi esce dal carcere, queste sono sempre negative, non si parla dei percorsi positivi. E le brutte notizie sono quelle che alzano i muri e alimentano i pregiudizi.

Infine, ma non ultimo, servirebbe un cambiamento culturale, perché ci portiamo dietro una mentalità che vede il carcere come vendetta, ma così non si va da nessuna parte. Invece ci sono strumenti che potrebbero aiutare perché, non dimentichiamocelo, chi ha scritto la Costituzione ha parlato di pena umana e rieducativa e l’articolo 27 non deve essere solo tirato fuori a uso e consumo del momento. Bisogna cominciare ad applicarlo.

Puoi fare un esempio?

Uno di questi strumenti l’ho scoperto quando ho avuto l’occasione di conoscere Marta Cartabia e di leggere il libro che ha scritto con Luciano Violante (“Giustizia e Mito”, ed. Il Mulino, ndr). Io in quell’incontro avevo letto il capitolo “Pena e riconciliazione”, scoprendo il mondo della giustizia riparativa2 che in altri paesi ha aiutato ad abbassare la recidiva, tanto che ho deciso di farci la tesi di laurea.

La giustizia riparativa dà una possibilità e aiuta a fare i conti con quello che hai commesso, a sradicare alla base ciò che ti ha portato a commettere il reato. È un supporto fatto da persone formate. E questa è un’altra cosa che manca: la formazione, soprattutto del personale di polizia penitenziaria, perché spesso i percorsi positivi dipendono anche dalla fortuna nelle relazioni che hai con il personale, ma non dovrebbe essere così.

Che cosa ti auguri per futuro?

Io ho già realizzato molto, anche oltre quello che avevo immaginato. Sono riuscita a costruire qualcosa dal punto di vista lavorativo e qui alla Casa ho trovato uno spazio in cui sto imparando tanto e restituendo qualcosa. Ora mi manca un anno e qualche mese per entrare nei termini dell’affidamento e adesso arriverà la parte più dura e che mi spaventa di più, che è quella di trovare una casa. Ma, come dicevo prima, ho imparato a guardare bicchiere mezzo pieno.


  1. L’Articolo 21 è un dispositivo della Legge sull’ordinamento penitenziario, che prevede la possibilità per le persone detenute di svolgere attività lavorative o di volontariato all’esterno del carcere ↩︎
  2. La giustizia riparativa è una forma di risoluzione del conflitto, complementare al processo, basata sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro con l’aiuto di un terzo imparziale chiamato “mediatore”. Con la restorative justice non si cerca di ottenere la punizione dell’autore del reato ma piuttosto di risanare quel legame con la società spezzato dal fatto criminoso. Si instaura così un contatto diretto tra offeso e offensore, il quale permette al primo di esprimere i propri sentimenti ed emozioni in relazione alla lesione subita, e al secondo di responsabilizzarsi. ↩︎

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