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I tanti problemi delle famiglie fragili

Delle sfide che vivono molte famiglie fragili, in particolare migranti, parliamo con i nostri operatori Tea Geromini, Gaia Lauri, Alessandro Maraschi e Peppe Monetti.

Nel 2022 sono stati 114 i cittadini peruviani che si sono rivolti allo sportello di tutela e consulenza legale della Casa della Carità. Erano stati solo 48 l’anno precedente.

Questo trend di importanti arrivi dal Sud America, e in particolare dal Perù, è proseguito anche nel 2023 con 363 persone di nazionalità peruviana che si sono rivolte allo sportello legale, 486 al centro di ascolto, 159 al servizio docce e guardaroba.

Se all’inizio a comporre questo flusso erano soprattutto donne sole, ora si tratta sempre più spesso di nuclei monogenitoriali o intere famiglie che, come conferma la storia di Graciela e Javier, arrivano in Italia con i figli, scappando da una situazione economica disastrosa e da un contesto sociale sempre più pericoloso.

La casa: il primo problema delle famiglie

Tanti i problemi che interessano queste famiglie, a partire dalla questione abitativa: «Molti di loro fanno domanda di asilo, ma i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria, le strutture deputata all’accoglienza dei richiedenti asilo, ndr) non sono attrezzati per accogliere famiglie che hanno anche 3 o 4 figli e finiscono per vivere in stanze sovraffollate, edifici occupati se non addirittura in strada», racconta Gaia Lauri, assistente sociale del Centro di Ascolto della Casa della Carità.

Molti arrivano con la promessa di ricevere un aiuto da parte dei connazionali che già vivono in Italia, ma spesso questo aiuto non c’è o è invece un vero e proprio sfruttamento economico. Come conferma Peppe Monetti, avvocato dello sportello legale: «Quando chiedo loro dove vivono, molti mi raccontano che si appoggiano ad amici e conoscenti, che però arrivano a chiedere fino a 800 euro per l’ospitalità in una stanza, magari senza fargli nemmeno usare la cucina. Queste famiglie, che arrivano con tutti i loro risparmi, per qualche mese ce la fanno, ma poi non riescono più a pagare e vengono cacciate».

E purtroppo, nonostante si parli tanto di tutela della famiglia, le attuali politiche sociali e abitative non sono adeguate ai bisogni delle famiglie più fragili. Spiega Tea Geromini, responsabile del Settore percorsi sociali della Casa: «Le attuali politiche sociali prevedono la tutela del minore a cui è garantita l’accoglienza, generalmente in comunità, con uno dei genitori, che solitamente è la mamma, mentre il papà, sostanzialmente, si arrangia».

Se questa separazione in alcuni casi è necessaria per esigenze educative o di protezione del minore, in molti casi non lo è. «Penso alle famiglie in emergenza abitativa o che hanno subito uno sfratto, che hanno bisogno di una soluzione di accoglienza temporanea, senza che sia necessario separare il nucleo. Eppure il nuovo bando per la Residenzialità Sociale Temporanea, non prevede l’accoglienza dei padri, se non in casi di particolare fragilità», dice Tea.

Che aggiunge: «L’idea alla base di questa prassi è che la coppia, se separata, sia maggiormente stimolata a cercare una soluzione per tornare insieme. Ma siamo pure sempre in una città dove i prezzi delle case sul mercato sono proibitivi. Quindi sarà pure di stimolo, ma se l’unica prospettiva per riunire il nucleo alla fine è la casa popolare, con i tempi di attesa che ci sono, la famiglia vive separata per molto tempo.

Una città sempre più escludente, non solo verso le famiglie fragili

Il tema della mancanza di un’abitazione non riguarda solo le famiglie più fragili, come quelle sudamericane. «L’esperienza dei nostri ospiti afghani ci dice che anche le famiglie più strutturate, con buone capacità, con uno stipendio medio, comunque non ce la fanno a trovare una soluzione abitativa autonoma a Milano», dice ancora Geromini.

Come aveva raccontato lo scorso novembre Alessandro Maraschi, coordinatore del progetto di accoglienza per profughi afghani della Casa della Carità, infatti «Le famiglie che ospitiamo dal 2021 stanno finendo il loro percorso di accoglienza all’interno del SAI, il Sistema di Accoglienza e Integrazione dedicato ai rifugiati e dovranno lasciare gli appartamenti in cui si trovano. Già da diversi mesi siamo impegnati insieme a loro per cercare una soluzione abitativa: abbiamo bussato a tante porte, a partire da quelle del sistema pubblico, che però è intasato, fino al mercato privato, ma i prezzi sono proibitivi».

Dopo 6 mesi, queste famiglie non sono ancora riuscite a trovare una soluzione abitativa autonoma, tanto che la Casa della Carità ha deciso di continuare a stare loro accanto, anche se il progetto di accoglienza si è formalmente concluso, sostenendole nel pagamento di un affitto transitorio in appartamenti che si trovano nella stessa struttura dove hanno vissuto finora, così che non fossero costrette a lasciare la città e il quartiere dove ormai si sono integrati.

Una separazione che spesso dura anni

Un altro tema molto forte per le famiglie fragili è quello della separazione.

Parlando sempre di famiglie sudamericane, per esempio, quello che i servizi della Casa osservano è che spesso i bambini che arrivano hanno una qualche disabilità, deficit mentali o disturbi cognitivi e quando le famiglie non hanno la possibilità economica di partire con tutti i figli, magari portano con sé i più fragili o i più piccoli, lasciando gli altri al Paese: «Questo comporta la disgregazione della famiglia, una grande sofferenza per la lontananza e poi, quando finalmente, dopo aver affrontato anni di burocrazia, si riesce a fare il ricongiungimento, c’è “un’esplosione” del nucleo, perché i figli che vengono lasciati indietro sono spesso i più grandi, che affrontano gli anni adolescenza e preadolescenza senza riferimenti genitoriali», racconta Peppe Monetti.

Il processo per il ricongiungimento familiare, infatti, è molto lungo. Spiega ancora l’avvocato della Fondazione: «Chi ha lo status di rifugiato non deve dimostrare niente se non che quello è suo figlio e quindi il percorso è più veloce. Altrimenti, per avere il nulla osta occorrono altri requisiti come una casa di una certa metratura e un certo reddito. Una volta ottenuto, e ci vuole almeno un anno e mezzo, il nulla osta va spedito al figlio che deve andare all’ambasciata italiana del Paese per avere il visto, ma sono sempre di più i racconti di chi dice che le ambasciate non danno appuntamenti se non dietro pagamento».

Capita quindi che questi bambini e ragazzi non vedano la mamma e il papà anche per 5, 6, 7 anni e quasi non li riconoscano come genitori. «Con le nuove tecnologie magari si vedono tutti i giorni su whatsapp, ma un conto è fare una videochiamata, un conto è vivere insieme. E quindi questo comporta che, una volta che questi ragazzi arrivano qui, siano riventicativi nei confronti dei genitori, facciano fatica ad andare a scuola, dove spesso mancano dei progetti educativi ad hoc, o si riconoscano nei connazionali, magari aderendo a delle bande e commettendo piccoli o grandi reati», conclude Monetti.


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