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Difendere l’umanità, anche in carcere

La presa di posizione della Casa, a proposito della recente circolare del DAP, che limita le attività culturali in carcere.

Fin dalla sua nascita, la Casa della Carità si spende affinché le pene siano rieducative, come prescritto dall’articolo 27 della Costituzione italiana.

Da molti anni, per esempio, attraverso la sua Biblioteca del Confine, la Casa realizza progetti culturali in collaborazione con la Casa Circondariale di San Vittore. Questi progetti, che ruotano intorno alla lettura e al teatro, hanno il merito di mettere in contatto chi sta dentro il carcere con chi sta fuori, coinvolgendo, oltre alle persone detenute, studentesse e studenti di alcuni licei milanesi.

I progetti culturali all’interno del carcere – spesso promossi da enti del terzo settore e organizzazioni di volontariato – rispondono a quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario italiano che, in attuazione del dettato costituzionale, pone la rieducazione delle persone condannate e il reinserimento sociale come finalità principali della pena e prevede espressamente che tale obiettivo sia perseguito anche attraverso l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive.

Essi rappresentano un’occasione preziosa per rompere la routine quotidiana delle persone detenute e restituire loro uno spazio di umanità. Attività come lettura, teatro, scrittura e momenti di confronto aprono occasioni di riflessione, favoriscono la progettualità e stimolano la voglia di cambiamento, offrendo anche opportunità concrete per immaginare nuovi percorsi di vita, avvicinarsi al lavoro e coltivare l’autoanalisi. Passi fondamentali per una vera rieducazione e per il reinserimento nella società. Avere la possibilità di entrare in carcere, aiuta chi sta fuori a superare pregiudizi e a vedere il detenuto e la detenuta come persona, e non come etichetta.

Forte di questa sua esperienza, la Casa della Carità si unisce a quanti – enti e associazioni di volontariato penitenziario, magistrati di sorveglianza, ma anche alcuni familiari di vittime di criminalità organizzata e terrorismo e sindacati di categoria – esprimono preoccupazione per le conseguenze della circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) dello scorso 21 ottobre.

La circolare obbliga chi vuole proporre attività ed eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo in istituti penitenziari dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, collaboratori di giustizia o detenuti sottoposti al regime del 41-bis, a inviare dettagliate richieste non più al direttore dell’istituto penale ma al DAP stesso, a Roma, anche quando queste non coinvolgono persone ristrette in queste sezioni.

Questa misura rischia di indebolire profondamente l’impegno e la partecipazione della comunità esterna nella vita degli istituti. Una procedura così complessa e farraginosa, infatti, comporterà un aggravio nei tempi di rilascio delle autorizzazioni, con il rischio che si riducano o si fermino completamente le attività trattamentali proposte e rallentino i percorsi di reinserimento delle persone detenute.

Questo genererà, e ha già generato, grosso malcontento tra le persone detenute, in alcuni casi sfociato anche in sommosse. Una situazione dura da vivere per le persone ristrette, ma anche difficile da gestire per gli agenti della Polizia Penitenziaria.

Inoltre, l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario affida ai magistrati di sorveglianza e alla direzione del carcere il compito di decidere chi può entrare in un istituto penitenziario per svolgere attività con i detenuti. È una scelta logica: sono loro a conoscere da vicino la situazione interna, le esigenze delle persone ristrette e le risorse disponibili sul territorio, quindi possono valutare se un progetto sia davvero utile al percorso di reinserimento di ciascuno.

La circolare del DAP stravolge questo equilibrio e, spostando le decisioni a un livello centrale, ridimensiona e svilisce il ruolo di direttrici e direttori degli istituti, oltre che di magistrate e magistrati di sorveglianza.

La circolare dunque sembra muoversi nella direzione opposta rispetto a ciò di cui il sistema penitenziario italiano – sempre più sovraffollato e intrinsecamente patologico per chi ci vive e ci lavora – avrebbe oggi bisogno: invece di incoraggiare la partecipazione della società civile, finisce per scoraggiarla, proponendo una visione del carcere che privilegia la custodia e il controllo sulla risocializzazione.


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