Migranti e i trattenuti nel CPR – di Francesco Maisto
Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano
C’è un tema prepotente, divenuto più che mai importante e drammatico nell’odierna età della globalizzazione, che, a mio parere, non può essere ignorato dalla riflessione pubblica: l’ineffettività di quei patti di convivenza che sono le Costituzioni e le Carte internazionali dei diritti. (L. Ferrajoli, Lezione in occasione del dottorato honoris causa, conferito dall’Universitat de Barcelona il 29.1.2019). Tale ineffettività si manifesta nelle loro violazioni sistematiche e strutturali, ed è resa possibile dall’assenza di una sfera pubblica all’altezza degli odierni poteri economici e finanziari globali.
Allora bisognerebbe chiedersi quale sia lo statuto giuridico di quella gigantesca distanza tra le tante carte dei diritti fondamentali e la realtà delle loro pesanti violazioni. In altri termini e in concreto: come dobbiamo inquadrare giuridicamente le centinaia di migliaia di persone che sono costrette a fuggire dalle guerre e dalla miseria provocate dalle politiche dei paesi più forti, che talora perdono la vita nelle loro tremende odissee e che, se sopravvissuti, sono costretti a subire, nei nostri paesi, l’esclusione e l’oppressione razzista indotta dalle loro identità differenti? E ancora: come si configurano quelle galere dei tanti “clandestini” che rivelano il sentimento ostile delle nostre comunità verso l’estraneo?
Tento di misurare questo scarto prendendo come esempio istituzionale il CPR di Via Corelli di Milano, necessariamente in relazione alla griglia normativa della legislazione vigente.
Il diritto…
La norma ordinaria di riferimento è l’attuale art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione, come modificato col Decreto legge del 21 ottobre 2020, n. 130, nel quale, in tema di esecuzione dell’espulsione, si legge al Comma 2: “Lo straniero è trattenuto nel centro, presso cui sono assicurati adeguati standard igienico-sanitari e abitativi, con modalità tali da assicurare la necessaria informazione relativa al suo status, l’assistenza e il pieno rispetto della sua dignità, secondo quanto disposto dall’articolo 21, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394. Oltre a quanto previsto dall’articolo 2, comma 6, è assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno“.
E ancora Comma 2-bis: “Lo straniero trattenuto può rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”.
Appare utile chiarire che il “trattenimento” dello straniero nel CPR (inteso come detenzione amministrativa) ricevette legittimazione formale con l’importante sentenza della Corte costituzionale n. 105/2001, nella quale lo si qualificava, come una misura assolutamente incidente sulla libertà personale, al pari di quella detentiva da tutti noi conosciuta e, come quella, di necessaria soggezione all’articolo 13 della Costituzione, norma che tutela la libertà personale come bene inviolabile e ne suggella le relative garanzie non solo per i cittadini italiani, ma anche per gli apolidi e gli stranieri.
L’art. 13 della nostra Costituzione recita, infatti:
“La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Quindi, anche la punizione della violenza istituzionale nel vissuto quotidiano mediato dagli stessi attori istituzionali.
Soccorrono anche gli artt. 27 e 32 della Costituzione.
Art. 27:
“La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Il doveroso trattamento conforme alla dignità della persona umana si impone, dunque, per ogni forma di restrizione della libertà personale.
Art. 32:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
E quindi, la tutela della salute come diritto dell’individuo, anche se non cittadino italiano.
A puntuale conferma l’art. 5 lett. F) CEDU sancisce: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (lett. f: caso di espulsione ed estradizione) e nei modi previsti dalla legge”.
Questi casi sono indicati precisamente dagli articoli 13, comma 4 bis e 14 del Testo Unico sull’Immigrazione, e sono le circostanze che legittimano la permanenza dei cittadini stranieri nei Centri.
L’art. 14 citato dispone che allo straniero trattenuto nel CPR debbano essere assicurati:
- adeguati standard igienico-sanitari e abitativi
- l’informazione relativa al proprio status
- l’assistenza
- il rispetto della dignità
- la libertà di corrispondenza, anche telefonica, con l’esterno.
Il Regolamento unico CIE (ora CPR) del 2014 e i Regolamenti interni di ogni Centro integrano le previsioni concernenti modalità e condizioni del trattenimento pre-espulsivo che, nella realtà concreta, nella maggioranza dei casi non sono rispettate.
… la prassi
Ciò nondimeno, notevole è la dissonanza fra diritto e prassi. Emblematico in tal senso è il caso del CPR di via Corelli.
La struttura è operativa dagli anni Novanta, dopo essere stata dal 2014 al 2018 il centro di accoglienza straordinaria gestito dalla Fondazione Internazionale della Croce Rossa. Il 29 settembre 2020 ha riaperto come Centro di permanenza per i rimpatri (CPR).
Eppure, nonostante le anzidette premesse normative, cogenti, dopo sei mesi, il 5 marzo 2021, all’esito del sopralluogo della Commissione Consiliare Carceri – Pene e restrizioni della libertà personale del Comune di Milano, la Delegazione dei Consiglieri costatava ben altro. Infatti, dal verbale di sopralluogo emergono i seguenti dati e violazioni degli indicatori di standard:
- La presenza di soli due reparti operativi – e di un terzo ai meri fini di isolamento per positività da Covid-19, contenenti 42 persone, sebbene la struttura sia nata per ospitarne cinque per una capienza massima di 112 persone. I ristretti sono stranieri di varie nazionalità, con una presenza predominante di tunisini, tutti uomini, tra cui alcuni minorenni che, solo in seguito, su segnalazione del Garante, sono stati debitamente trasferiti in centri dedicati ai minori.
- La mediazione culturale, che dovrebbe essere garantita come uno dei diritti principali, è assente, salvo che per la lingua araba.
- Le figure professionali dello psicologo e dell’assistente sociale sono presenti solo un giorno a settimana, dalle 8:00 alle 15:00.
- Il diritto di culto è del tutto trascurato: non esercitano azioni religiose i ministri di culto all’interno della struttura.
- La struttura risulta completamente impermeabile rispetto al territorio circostante: non accedono neppure associazioni, organismi di volontariato, di ricerca.
- Una volta al giorno un’impresa di pulizie si occupa dell’igiene dei luoghi, tuttavia vi è un solo bagno in comune.
- Non è assicurato lo svolgimento di alcuna attività ricreativa o utile, e dunque, i trattenuti sono costretti all’ozio forzato nel corso della loro permanenza nel CPR, apparentemente giustificato da ragioni di sicurezza, ma senza una prognosi di pericolosità sociale.
- Non è concesso mantenere i rapporti con l’esterno mediante i personali dispositivi elettronici: all’ingresso del Centro sono, infatti, ritirati cellulari e schede SIM, riconsegnati solo all’uscita. È stato necessario un provvedimento del Tribunale di Milano, emesso in data 23 febbraio 2021 ai sensi dell’art. 700 c.p.c., per ordinare all’ente gestore del CPR di consentire la detenzione e l’uso del cellulare di proprietà del ricorrente, un ristretto tunisino.
- Ogni trattenuto ha l’assistenza legale di un avvocato per il procedimento di convalida e per le proroghe del trattenimento, ma la discontinuità dell’attività difensiva la rende inevitabilmente poco efficace.
- La struttura è totalmente spoglia di arredi. Persino le porte dei bagni o delle docce sono inesistenti, perché ritenute “oggetti” offensivi, degradabili dai trattenuti “rabbiosi”.
- Nella struttura operano 20 agenti, organizzati su 4 turni, sicché, in media, il rapporto ristretti-agenti è di 2 a 1. Non è presente alcun tipo di allarme o sistema di rilevazione delle emergenze. Non viene impedito in alcun modo il verificarsi di eventi critici. Manca, a tal proposito, un registro di questi ultimi, che possa garantire la trasparenza degli accadimenti che interessano il Centro.
L’emergenza pandemica attuale ha, peraltro, acuito molte delle criticità già presenti.
Nonostante gli interventi ispettivi e le raccomandazioni del Garante nazionale e comunale, ancora dopo dieci mesi, il 7 luglio 2021, il Report inviato dal Gestore alla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD.) rilevava che:
- le camere di pernottamento sono prive di bagni, i soli sei bagni e sei docce, sono entrambi privi di porte;
- il CPR è dotato di un cortile esterno, ma privo di strutture per l’attività ricreativa e sportiva dei trattenuti (es. campetti, biblioteche, locali per la didattica);
- non esistono locali adibiti a luogo di culto, ma un Imam accede una volta a settimana negli spazi comuni;
- l’attestazione medica di idoneità all’ingresso ed al trattenimento viene sempre effettuata da un medico del Sistema Sanitario Nazionale, ma all’interno di un ospedale o di un presidio sanitario pubblico;
- non è previsto un protocollo d’intesa tra la Prefettura e la AST locale o con il Ser.D.;
- circa l’80% dei trattenuti assume psicofarmaci;
- i tempi medi di attesa per una visita specialistica presso una struttura ospedaliera esterna sono maggiorati dal fatto che non è possibile prenotare visite specialistiche, se non accompagnando i trattenuti al Pronto Soccorso oppure grazie alla collaborazione gratuita dell’Opera San Francesco;
- sono istallati (finalmente) quattro apparecchi telefonici fissi all’interno del Centro, ma l’uso degli stessi è condizionato alla disponibilità economica del trattenuto per le chiamate internazionali e non sono consentite telefonate in entrata tramite gli apparecchi telefonici fissi;
- durante l’emergenza pandemica non è stata data la possibilità ai trattenuti di effettuare videochiamate con i propri familiari, ma non sono mai state vietate le visite tranne per due episodi di quarantena di 10 giorni;
- al trattenuto che ha manifestato volontà di richiedere protezione internazionale non è rilasciata una ricevuta scritta comprovante tale dichiarazione, anche se viene immediatamente messo in contatto con l’Ufficio Immigrazione nella Sezione Distaccata presente al Centro;
- non esiste un protocollo tra Prefettura ed associazioni esterne per l’erogazione di servizi di assistenza all’interno del CPR;
- non vi sono associazioni che garantiscono attività ricreativo-culturali (es. scuola d’italiano, attività teatrali, ecc.);
- ai trattenuti è data la possibilità di utilizzare materiale di scrittura (es. penne e fogli), ma questa è limitata al tempo strettamente necessario alla scrittura stessa, finito il quale la penna deve essere restituita per disposizioni delle forze dell’ordine e per motivi di sicurezza. Le regole previste per la distribuzione di tali materiali di scrittura prevedono che sia consegnato quanto richiesto dal trattenuto e che l’operatore attenda fuori fino a quando questi non abbia terminato.
Le enormi, incommensurabili discrasie tra il Report ufficiale – già, peraltro, autorappresentativo di carenze ed omissioni – e le constatazioni de visu della Commissione consiliare si commentano da sole e tradiscono la reale natura dei diritti di carta previsti dalle Carte dei diritti.
In sintesi, non è esagerato affermare che si tratta di un complessivo regime di restrizioni non eguagliabile al regime penitenziario, in quanto presenta vistose differenze deteriori rispetto a quest’ultimo.
Vero è che l’insegnamento di Papa Francesco comprende per i migranti anche “programmi di custodia temporanea”, ma in un contesto ampio di ben altro respiro. Insegna, infatti, in Fratelli tutti (¶130): “Ciò implica alcune risposte indispensabili, soprattutto nei confronti di coloro che fuggono da gravi crisi umanitarie. Per esempio: incrementare e semplificare la concessione di visti; adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione”.
Un contesto coniugato su quattro verbi (¶129): “Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse. Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana“.
CPR e salute mentale
Un fenomeno di grande rilievo è rappresentato dal numero dei trattenuti affetti da patologie psichiatriche, i quali, scaduti i termini massimi di trattenimento, vengono dimessi senza un percorso terapeutico. Si tratta di migranti immessi nel CPR in condizioni di serie vulnerabilità psichiatriche senza un’adeguata presa in carico.
Tutto ciò, nonostante la chiarezza del Regolamento Unico CIE ( ora CPR) e degli Allegati allo schema generale di appalto, approvato con decreto del Ministro dell’Interno del 29 gennaio 2021. Da tale Regolamento emerge chiara l’indicazione che i medici del CPR debbano mantenere alta e assidua l’attenzione verso l’insorgere di condizioni di salute, sfuggite o non presenti nel corso della visita preliminare all’ingresso, che potrebbero comportare l’incompatibilità con la permanenza nel CPR.
Il compito appare particolarmente importante con riferimento alla comparsa di segni di patologie, talvolta emergenti solo dopo un periodo di osservazione, e pertanto di difficile individuazione durante le visite mediche, necessariamente rapide, precedenti l’accesso alla struttura. «In tal caso – evidenzia il Garante Nazionale – il ruolo del sanitario è fondamentale nell’approntare le urgenti misure di tutela, avviare con la massima celerità le opportune verifiche specialistiche e promuovere una nuova valutazione di idoneità da parte della competente Autorità sanitaria pubblica».
Dunque, il primo problema rilevato dal Garante riguarda l’aggiornamento periodico della compatibilità delle condizioni di salute col trattenimento nel CPR.
Queste prassi sanitarie e gestionali della salute dei ristretti non appaiono conformi alle Direttive della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, la quale nella risposta al Rapporto del Garante sulle visite effettuate nei CPR nel corso del 2019 e 2020, si è impegnata a richiamare «l’attenzione dei Prefetti affinché, anche in fase di rilascio dai CPR, vengano prestate le cure e l’assistenza necessarie a tutelare l’integrità fisica dei migranti, nell’ambito del vigente ordinamento».
CPR somma di violazioni di diritti e della dignità
Come denominare o qualificare o classificare, sia dal punto di vista istituzionale, e sia dal punto di vista giuridico, un’Istituzione che persegue nei fatti scopi diversi da quelli dichiarati? Perché quella finalità istituzionale dichiarata, per quanto opinabile, viene disattesa: non trattenimento finalizzato al rimpatrio, ma fine a sé stesso?
E questo, tanto per il fenomeno dianzi descritto dei migranti con patologie psichiatriche, quanto per i tanti casi, divenuti una regola, di scadenza dei termini di trattenimento, in mancanza del tampone molecolare o antigenico Covid indispensabili per l’imbarco.
In concreto, a fronte del legittimo rifiuto da parte dei trattenuti di sottoporsi al tampone, si attende la scadenza dei termini di internamento, ovvero: 45 giorni per le persone liberate dalle carceri e 90 giorni per quelle identificate nel territorio e poi internate; termini, questi, sospesi (salvo decorrenza in caso di rigetto) per i richiedenti asilo, che, in media restano nel CPR per 90 giorni. In tutti questi casi la Questura emette il foglio di rimpatrio volontario, assegnando un termine.
In sintesi, la pretesa dello Stato è l’autoespulsione e il tutto porta alla configurazione del migrante come un pacco postale.
In altri tempi lo avrebbe spiegato un lapsus freudiano dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni, che nel 2009, definì il rilascio di alcuni stranieri dai centri di trattenimento per il raggiungimento del termine massimo di permanenza «un indulto per i clandestini». E giustamente annotò il costituzionalista Andrea Pugiotto: «La sintassi urticante adoperata dal Ministro, che allora denunciò il rischio di un generalizzato “indulto permanente” a favore di migliaia di extracomunitari, ha tuttavia il pregio di svelare – al di là di ogni ipocrisia – quelli che, secondo il Governo, sono la reale natura e l’autentico significato della loro detenzione: il CIE è una galera, il trattenimento è una pena, il clandestino è un criminale».
Le certezze allora diventano giganti coi piedi di argilla.
A tal proposito soccorre ancora l’Enciclica Fratelli tutti al ¶32: “Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che «la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “egoismi” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».
La somma di tante violazioni di diritti e innanzitutto della dignità rende veritiera la tesi di Maurizio Veglio (La malapena. Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri, 2020, SEB27): “L’emblema della prigione amministrativa è dunque la sua indecifrabilità, giuridica e umana”.
Anche per il CPR di Milano, come per quello di Torino, sul quale si diffonde Veglio, le opinioni dei visitatori ufficiali concordano che la diffidenza domina nelle relazioni, diffidenza: dei detenuti tra loro, verso gli operatori, le forze dell’ordine, gli avvocati e i giudici, gli interpreti e i sanitari. E quindi il CPR è capace di trasformare perfino il medico in un secondino, ogni recluso in un simulatore, di avvelenare anche i rapporti tra i trattenuti, la richiesta di una firma in un’insidia.
Per i ristretti nei CPR non è prevista la tutela giurisdizionale tipica, assicurata nelle carceri dalla Magistratura di Sorveglianza.
Non solo, ma appare anche significativa la parabola delle tre modifiche del Regolamento del CPR di Milano ottenute dal Garante locale su richiesta al Prefetto. Il Regolamento, paradossalmente e nonostante la diversa decretazione vigente, non legittimava l’ingresso e l’attività ispettiva del Garante comunale a salvaguardia di precisi diritti, se non con autorizzazione prefettizia. Non prevedeva la redazione e l’aggiornamento, da parte del gestore, del registro dei presenti. Non prevedeva la comunicazione della carta dei servizi interni (orari, giorni, luoghi, visite mediche, reclami, barberia, ecc). Non prevedeva la facoltà di comunicare ai familiari l’internamento nel CPR. Non prevedeva la comunicazione della cartella sanitaria al Giudice di pace. Non prevedeva la comunicazione ai familiari nei casi di ricovero in ospedale. Non prevedeva il solo controllo visivo a distanza, e non auditivo, da parte della Polizia in occasione delle visite mediche. Non prevedeva il registro degli “eventi critici”. Non prevedeva la facoltà di telefonare gratis al Garante. Non prevedeva la cassetta ad hoc per i reclami.
Insomma, bisogna constatare amaramente che tra restrizioni e lievi ampliamenti, la normativa italiana che disciplina l’allontanamento dei cittadini extracomunitari è il frutto avvelenato della peggiore collaborazione tra Unione Europea e Italia. Da un lato, dipende dalla Direttiva rimpatri, la direttiva della vergogna, Direttiva 2008/115/CE, “recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare“, pietra angolare della politica dell’Unione Europea sull’immigrazione, che, pur di agevolare l’espulsione degli stranieri, ne legittima il trattenimento in assenza di reato. Dall’altro, è il risultato di un percorso avviato nel 1998 dalla cd. Turco-Napolitano, la legge che ha introdotto l’istituto del trattenimento amministrativo, oggetto di un’ossessiva rimodulazione normativa.
Si tratta di un sistema altamente inefficiente perché vincolato alla collaborazione delle ambasciate dei Paesi di origine, dunque a un parametro prettamente politico.
Il fatto che, in circa la metà dei casi, dopo sei mesi di “trattenimento”, lo straniero venga liberato perché non si è riusciti a organizzarne l’espulsione (“Il rimpatrio è un risultato occasionale”), rende ancor più drammatico questo fallimento. «Il trattenimento amministrativo sarà servito soltanto a distillare odio sociale» (Paolo Borgna, Avvenire, 3 febbraio 2021).
In particolare, tra il 2013 e il 2017, le autorità italiane hanno rimpatriato appena il 20% di tutti gli stranieri extra-Ue destinatari di un decreto di allontanamento (28mila su 145mila) e solo il 50% dei 3-6mila trattenuti l’anno (i dati sono tratti dal Parere del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale sul decreto-legge 4 ottobre 2018, n.113).
Quale prospettiva?
E dunque, quale prospettiva di attuazione può avere questo modello legislativo in tempi di pandemia e di tragedia afgana? Abolire la detenzione amministrativa è ragionevole. Innanzitutto con le diversa strategia di ricostruzione delle motivazioni reali delle leggi ingiuste in modo da disvelarne l’ingiustizia. Il che può essere fatto evidenziando tutte le alterazioni dei fatti, che trasformano lo straniero e il diverso in un soggetto pericoloso e ostile: in sostanza, proiettando sull’altro la nostra ostilità verso di lui.
Nel film “Vincitori e vinti”, la contestazione del giudice americano (Spencer Tracy) al giudice e grande giurista tedesco (Burt Lancaster), si conclude proprio con il riconoscimento del secondo che non avrebbe dovuto applicare le leggi ingiuste. La vicenda è paradossale perché anche il giudice americano avrebbe dovuto guardare a quanto succedeva e continuava a succedere nel proprio sistema giudiziario: quell’apartheid e il razzismo di cui si è parlato, allora ancora operanti, che si esprimevano anche in aspetti tragici, se pur meno noti, come quello degli oltre 7.000 linciaggi di neri, consumati fra il 1880 e il 1960 negli Stati Uniti, con processi ed esecuzioni sommarie (rientranti, però, nel sistema legale, sia pure con modalità irregolari). Sì, la situazione era paradossale, ma chiara: il giudice vinto riconosceva la violazione deontologica, il giudice vincitore non si poneva il problema.
Questi meccanismi hanno trovato piena applicazione in tutte le politiche di apartheid e di razzismo. Nulla di nuovo, quindi. Semmai, la conferma che siamo di fronte allo stesso fenomeno, alle stesse leggi, alla stessa ingiustizia delle medesime. E, aggiungerei, alla stessa debolezza verso la tentazione della conformazione alla legge ingiusta, ché questa favorisce la quiete sociale, mentre, all’opposto, la contestazione provoca divisioni e tensioni. E si potrebbe citare qui la cieca invocazione del dialogo con chi demolisce la casa comune: l’invito all’agnello a fidarsi del lupo.
Ci sono dichiarazioni – più ricorrenti, ma non esclusive – di rappresentanti politici della Lega Nord che, con la terminologia classica del razzismo e spesso di quello più rozzo ed esplicito, hanno esternato i loro intenti: «cacciare, perseguire gli immigrati arrivati nel nostro paese, impedire la loro integrazione, sbarrare le frontiere il più efficacemente possibile».
Se questa è la scelta politica esplicita, le leggi che la attueranno non potranno essere che discriminatorie. Così ne facciamo dei clandestini, trattandoli da delinquenti. È il manifesto del disprezzo della “nuda vita”. E quando la legge non è arbitra sopra le parti, ma garante della intolleranza di una parte, la resistenza istituzionale e civile alle leggi ingiuste diventa non solo possibile, ma dovuta.
Bisogna ricordare ai tiepidi della fase storica attuale, attenti a prendere le distanze da quei tempi e da quelle legislazioni ed a considerare improponibile un parallelo con i nostri giorni, che una questione che tocca i principi fondamentali di umanità non può essere trasformata in una questione di quantità della discriminazione.
Le alternative al trattenimento esistono già. Alcune finalizzate a garantire che lo straniero non si sottragga al rimpatrio: la consegna del passaporto, l’obbligo di dimora in un luogo noto alle autorità, l’obbligo di presentazione periodica presso un ufficio della forza pubblica. Altre ancora meno invasive della libertà delle persone. Tra queste ultime, una, non necessariamente la migliore, addirittura pronta all’uso. La disciplina dell’allontanamento dei cittadini dell’Unione Europea e dei loro familiari non prevede la detenzione. La regola è la partenza volontaria della persona, alla quale è concesso almeno un mese per l’organizzazione del viaggio. La restrizione fisica è prevista solo in casi limite, quando “l’ulteriore permanenza sul territorio è incompatibile con la civile e sicura convivenza“, e solo per un lasso temporale contenuto,
Scrisse Anna Frank: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo“.
[Nell’immagine in apertura: il CPR di via Corelli a Milano]