La povertà non è solo economica, ma anche assenza di diritti. Ne abbiamo parlato con Peppe Monetti, avvocato dello Sportello di tutela legale della Fondazione.
La povertà non è solo un fatto economico. C’è una povertà fatta di attese, esclusioni, impedimenti burocratici che si moltiplicano a catena, che possono partire dall’assenza di un permesso di soggiorno o di una residenza e negano di fatto i diritti fondamentali delle persone. Ne abbiamo parlato con Peppe Monetti, avvocato dello Sportello di tutela legale della Fondazione.
Peppe, cosa vedi dal tuo osservatorio?
Quello che vedo quotidianamente è una crescente compressione dei diritti: la difficoltà di avere un permesso di soggiorno, la lentezza delle procedure burocratiche e la carenza di servizi adeguati minano la possibilità delle persone di vivere una vita dignitosa. Chi arriva in Italia non vuole semplicemente sopravvivere; vuole integrarsi, avere un lavoro stabile, una casa e poter crescere i propri figli. La burocrazia, invece, rende questo processo molto più difficile, e chi si trova a lottare per il riconoscimento di un diritto spesso si trova a dover affrontare un sistema che lo ostacola piuttosto che aiutarlo.
Quali sono le domande principali che raccogliete allo sportello legale?
La domanda principale che raccogliamo è relativa alla regolarizzazione della propria presenza nel Paese e il permesso di soggiorno è il primo passo. La burocrazia, infatti, stabilisce che per vivere legalmente in Italia si debba avere un titolo di soggiorno. C’è chi ha diritto ad averlo e chi no, ma questo non deve far dimenticare che, anche senza permesso di soggiorno, una persona ha comunque diritti fondamentali che le appartengono in quanto essere umano.
Dall’avere o meno i documenti, deriva poi la poi la possibilità di accedere a tutta una serie di altre cose, dalle cure, alla residenza, alla casa, alla possibilità di ricongiungersi con la propria famiglia. La sfida per noi è quindi quella di riportare la persona a essere cittadina a pieno titolo e ad avere accesso a una vita dignitosa, che è la vera povertà che vedo io.
Quali altre “povertà di diritti” vedi per chi arriva in Italia?
Un aspetto fondamentale è il diritto alla vita familiare, sancito dalla Costituzione. Prendiamo l’esempio di molte persone provenienti da Paesi del Sud America, come El Salvador, Nicaragua, Perù o Ecuador, che giungono in Italia per lavorare nelle nostre famiglie e prendersi cura dei nostri anziani.
Queste persone, per la maggior parte donne, arrivano qui lasciando indietro figli e familiari e, ovviamente, il loro desiderio più grande è quello di ricongiungersi con loro, per dare ai figli un futuro migliore in Italia.
Ma qui entra in gioco un problema più grande: la casa. Finché sono da sole, queste donne si adattano a vivere in situazioni precarie o vivono presso le case in cui lavorano. Ma quando la famiglia si allarga, con l’arrivo dei figli, del marito o dei genitori, tutto si complica. Senza documenti e senza un contratto di lavoro – e siamo noi a far lavorare in nero queste persone – è molto difficile trovare un’abitazione adeguata. Spesso, quindi, le famiglie di migranti vengono “espulse” da Milano verso i comuni limitrofi come Sesto San Giovanni, Pioltello o Seggiano, dove però la situazione non migliora.
Senza una situazione abitativa stabile, inoltre, è difficile ottenere la residenza e questo impedisce o rende molto difficile alle persone di accedere a servizi essenziali come l’assistenza sanitaria, la scuola non dell’obbligo per i bambini o la mensa senza dover pagare la retta massima, perché senza residenza non si può avere l’ISEE.
E se i figli non possono andare a scuola, la madre non può lavorare a tempo pieno o rischia di perdere il lavoro, perché deve prendersi cura di loro. O, se magari il papà non lavora, è lui che si occupa dei figli, ma poi questo significa che lei porta a casa lo stipendio e lui no, provocando spesso una rottura dei legami familiari. Tutto ciò innesca un circolo vizioso, che non permette a queste famiglie di avere una vita dignitosa.
In che modo la burocrazia nega i diritti fondamentali e ostacola l’integrazione?
In questo caso, la negazione di diritti è legata alle tempistiche burocratiche. Le famiglie che arrivano in Italia e hanno figli con disabilità, ad esempio, possono fare domanda per il permesso di soggiorno tramite l’articolo 31, ma il processo è molto lento, il permesso arriva dopo mesi, a volte anni, e nel frattempo questi bambini non hanno accesso a diritti fondamentali.
Nell’epoca delle semplificazioni, di internet e della velocità, queste cose restano lentissime: benissimo che abbiamo informatizzato gli appuntamenti con la questura, malissimo che il sito va in crash un giorno sì e l’altro pure.
Ci sono poi tutte le contraddizioni delle politiche migratorie del nostro Paese, che penalizzano chi arriva in Italia per cercare una vita migliore, facendo lievitare il numero di persone che finiscono per vivere in situazioni di precarietà. Per esempio, la maggior parte delle persone, per provare a regolarizzarsi, fa domanda di protezione internazionale, ma non tutti ne hanno diritto e nel frattempo questo canale si intasa, andando ad allungare le tempistiche per tutti.
Oppure pensiamo ai decreti flussi; anche qui le tempistiche sono disastrose: se un datore di lavoro ha bisogno di un lavoratore, non può permettersi di aspettare un anno per l’approvazione di un permesso di soggiorno. E quando arrivano le persone con un visto, a volte non riescono nemmeno a convertire quel visto in un permesso di soggiorno, proprio perché manca un datore di lavoro o perché l’accordo è fatto in maniera informale. Questo porta a situazioni di sfruttamento e a una crescente illegalità.
Cosa dobbiamo fare per garantire a tutte e tutti un accesso più equo ai diritti?
È necessario un cambiamento radicale nelle politiche migratorie e nei processi burocratici, affinché tutti possano avere le stesse opportunità di vivere una vita dignitosa in Italia.