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Il dramma e la speranza delle famiglie della Casa

Una riflessione sulle famiglie del nostro presidente don Paolo Selmi, che vede intrecciarsi due aspetti: il dramma dell’allontanamento e la speranza per una vita migliore.

Sono tante le famiglie accolte e aiutate dalla Casa della Carità, che portano dentro di sé una storia di relazioni spezzate o comunque faticose. E anche nel caso di ospiti singoli, sono spesso persone la cui storia familiare – non necessariamente drammatica, a volte anche bella – è stata comunque interrotta bruscamente.

Riflettendo su queste vicende, in particolare quando si tratta di nuclei stranieri, penso quindi a due aspetti che si intrecciano: il dramma e la speranza.

Da una parte, queste persone e famiglie vivono il dramma della partenza che, sia quando è subita sia quando è una scelta per cercare una prospettiva di vita migliore, significa lasciarsi alle spalle la propria terra e spesso pezzi stessi di famiglia. Dall’altra parte, però, c’è la speranza che questa separazione possa significare un ritorno positivo, una possibilità per la famiglia che a un certo punto può anche riuscire a riunirsi.

L’Antico Testamento è pieno di queste vicende di separazione, ricongiungimento e coraggio. Penso per esempio a Ester e a Giuseppe. Le loro sono storie di due persone straniere in terra straniera, che grazie al coraggio e alla capacità di custodire il patrimonio affettivo e valoriale delle origini, salvano non solo le loro famiglie, ma la stessa comunità che li ospita.

Ester è una donna ebrea che diventa la regina di Persia. Sostenuta dalla fede, trova il coraggio di rivelare al re la sua identità, fino a quel momento taciuta ma non dimenticata, per intercedere per il suo popolo, il popolo ebreo, salvandolo da un annientamento pianificato.

Giuseppe, venduto dai fratelli come schiavo in Egitto, entra alla corte del faraone come colui che ha visioni e sa leggere il presente e il futuro e questa sua capacità lo porta a diventare consigliere del faraone. Quando Giuseppe prevede sette anni di abbondanza e sette di carestia, suggerendo di fare riserva di grano durante il periodo dell’abbondanza, con la sua saggezza assicura sostentamento al Paese che lo aveva in qualche modo accolto e anche alla sua famiglia, che si era recata in Egitto per chiedere aiuto.

Entrambe queste storie testimoniano come l’identità culturale e affettiva della persona straniera quando accolta può diventare una fonte di ricchezza, addirittura di salvezza, per la comunità che la ospita. È il tema della reciprocità, la ricchezza reciproca che siamo gli uni per gli altri.

Questa reciprocità, la vedo molto alla Casa della Carità, che in un certo senso è una famiglia, nella misura in cui si accoglie l’altra persona per quella che è, la si fa sentire a casa, se ne rispetta la storia e la cultura, si impara a non avere un pregiudizio.

Pensando alla Casa della Carità come famiglia, penso inevitabilmente anche al tema della gratuità, che non significa accontentare acriticamente l’altro nei suoi desideri, ma significa amare gratis, senza un secondo fine, se non un invito, ognuno con i propri tempi, a crescere e a vivere la propria storia.


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