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Cosmopolitismo dal basso – Arjun Appadurai

Il testo della lectio magistralis tenuta dal professor Arjun Appadurai al convegno del centro studi SOUQ il 26 novembre 2012, nell’aula magna del’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Il cosmopolitismo tende a essere considerato una pratica strettamente connessa all’identità culturale e all’auto-miglioramento individuale. Di conseguenza non viene spesso collegato alla più vasta economia politica di diritti, risorse e riconoscimento. Questa, però, è una visione ristretta del cosmopolitismo. Infatti, tra i molti modi in cui, in particolare nelle democrazie multiculturali, ai poveri viene negato l’accesso ai benefici della partecipazione, c’è la loro esclusione sia dalle istituzioni che si occupano di educazione, carriera e specializzazione, sia dalle opportunità di accrescere la consapevolezza delle proprie possibilità di sviluppo personale. Naturalmente tale anomalia è stata riconosciuta da tempo dalle politiche nazionali e globali di sviluppo e modernizzazione, specialmente quelle associate a quei movimenti di modernizzazione economica che si sono sviluppati nelle nazioni riemerse dopo la seconda guerra mondiale. Impulsi simili volti a coinvolgere i poveri nelle politiche di massa attraverso meccanismi di educazione di massa hanno avuto precedenti nelle grandi rivoluzioni sociali del ventesimo secolo in Russia e in Cina, e in misura minore nelle rivoluzioni sociali settecentesche in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, che hanno tutte contribuito a rafforzare il legame fra sovranità popolare ed eliminazione della povertà. Tuttavia, questa tendenza storica verso l’educazione di massa, di per sé certamente un prodotto dell’enfasi illuministica sulla connessione fra gli ideali di conoscenza, educazione e uguaglianza sociale, in genere ha fatto sì che fosse posto un forte accento su abilità tecniche, alfabetizzazione di base e capacità educative formali a vari livelli, viste come chiavi della democratizzazione. Tale accento non è sbagliato, ma tende a sottovalutare la rilevanza politica del cosmopolitismo come strumento di emancipazione valido in sé.

Pensiamo ai vari tipi di pratiche attraverso le quali gli abitanti degli slum si sforzano di allargare i propri orizzonti culturali, a cominciare proprio del loro stesso mondo all’interno di Mumbai. Tali pratiche richiedono loro di immaginare la realtà quotidiana, e i presupposti della loro stessa sopravvivenza e sicurezza, fin dall’inizio e in ogni momento, in uno spazio multilingue e multiculturale. Ciò è dovuto al fatto che in una città come Mumbai non è mai semplice separare lingua, casta e religione da questioni di classe, potere e privilegio in termini di spazio. E neanche si possono delineare chiaramente i confini fra l’una e l’altra di tali differenze, per cui può accadere che i propri pari siano, in un modo o nell’altro, familiari culturali, mentre le autorità siano invece “gli altri” dal punto di vista culturale. Una qualsiasi differenza è sia orizzontale che verticale e i poveri (otto milioni, va ricordato) sono divisi fra loro in termini di lingua, religione e casta così come ciascuno di essi potrebbe esserlo dagli altri otto milioni di abitanti di Mumbai più benestanti di lui. Quindi: tutte le transazioni culturali richiedono una negoziazione e tutte le negoziazioni hanno una dimensione culturale. La lingua è l’arena più visibile (e udibile) per tale negoziazione, ma serve anche come esempio di altri campi in cui si esplica la differenza, quali la regione d’origine, la religione o la casta, nessuna delle quali è irrilevante per i poveri delle aree urbane, per quanto indigenti possano essere.

Per questi motivi, la lotta per allargare i propri orizzonti culturali, dal punto di vista linguistico o altro, è non opzionale, e anche questo sotto due aspetti. È obbligatoria nell’ambito dello sforzo per costruire solidarietà orizzontali: per esempio, fra le donne musulmane dell’associazione Mahila Milan e gli uomini tamil dell’NSDF (National Slum Dwellers Federation), ma è obbligatoria anche nel contesto dei loro sforzi per trattare con la polizia, le banche, le autorità municipali e le classi medie che dominano la politica cittadina. E, cosa più importante di tutte, in una società democratica, ampliare i propri orizzonti culturali è obbligatorio per i poveri delle città perché raramente la lingua delle politiche democratiche di massa è unica per tutti i partiti politici, i candidati e i collegi elettorali, specialmente in città come Mumbai, ma per certi versi anche in città situate in aree linguisticamente più omogenee (come Bangalore nel Karnataka o Hyderabad nell’Andhra Pradesh). Persino in una città come Surat nel Gujarat, più ci si avvicina alla realtà politica dei quartieri, dei distretti e dei collegi elettorali, più aumenta la varietà di dialetti e lingue, anche in un contesto in linea di massima monolingue. In una certa misura questa è la natura delle grandi città, che di frequente devono la loro crescita a movimenti migratori che coprono grandi distanze e lunghi periodi di tempo.

La natura obbligatoria del cosmopolitismo per i poveri dei contesti urbani fa sì, però, che esso sia una risorsa più affidabile per le pratiche di democrazia profonda. La democrazia profonda è la democrazia più prossima, più a portata di mano, la democrazia del quartiere, della comunità, delle relazioni di sangue e dell’amicizia, che si esprime nelle pratiche quotidiane della condivisione delle informazioni, della costruzione delle abitazioni e dei servizi igienici, e del risparmio (visto come base su cui fondare una federazione all’interno di questo network globale). La democrazia profonda è la democrazia della sofferenza e della fiducia; del lavoro e della difesa dello slum (dalla demolizione e dall’evacuazione); del microcredito; e soprattutto del riconoscimento quotidiano, in tutte le attività organizzate all’interno di queste comunità, che le donne sono la fonte più vitale del senso di continuità e di comunità, la fonte della pazienza e della saggezza nella lotta quotidiana per mantenere la sicurezza a dispetto del senso di crisi e minaccia proveniente da molte direzioni. La democrazia profonda precede gli eventi che accadono nell’urna, durante la corsa elettorale e negli uffici governativi, ma dà loro sostegno ed energia. Specialmente in India, dove la povertà si esprime perlopiù come umiliazione, subordinazione e deferenza meccanica verso tutti, ma in particolare verso i ricchi e i potenti, la democrazia profonda è la trasformazione degli ideali costituzionali borghesi in forme quotidiane di consapevolezza e di comportamento, forme che rendono possibile una discussione guidata dal rispetto, in cui le voci dei deboli, dei più poveri e soprattutto delle donne si accordano in pieno, e la trasparenza nella risoluzione delle dispute e dei conflitti diventa pratica abituale. La democrazia profonda è una democrazia pubblica in quanto interiorizzata nella linfa vitale delle comunità locali e divenuta parte, a livello locale, dell’habitus, nel senso reso celebre da Pierre Bourdieu.

Tutte queste pratiche ed espressioni di democrazia profonda si basano su nuove abitudini comunicative, e poiché anche la più piccola delle comunità povere urbane implica circostanze che portano persone provenienti dai più svariati background culturali e da storie regionali le più diverse a incontrarsi sulle stesse strade o agglomerati informali, il cosmopolitismo obbligatorio è la condizione sine qua non per mantenere viva la democrazia profonda. Infatti, senza che venga fatto quotidianamente uno sforzo per allargare i propri orizzonti linguistici e culturali, come può un gruppo organizzato di uomini e donne indigenti dibattere questioni come la scelta di una donna hindu della comunità di spendere parte del denaro preso in prestito dai risparmi comunitari per acquistare sari per il matrimonio della figlia? O come la pressione esercitata su una nonna musulmana con un passato di prostituzione affinché celebri il matrimonio del nipote in pompa magna nella spinta verso la rispettabilità? O in merito alla richiesta di un operaio edile delle ferrovie di accedere ai piccoli risparmi della comunità per finanziare il viaggio per assistere al funerale del padre? In casi come questi, cosmopolitismo obbligatorio e democrazia profonda necessitano l’uno dell’altra e si sostengono a vicenda, dato che ampliare i propri orizzonti culturali e linguistici è un prerequisito indispensabile per poter affrontare qualsiasi discussione relativa a questioni vitali come la fiducia, l’esiguità delle risorse comuni e i doveri. Inoltre, simili dibattiti democratici rafforzano le virtù dell’autopromozione culturale in una realtà dura e perennemente in stato d’emergenza come quella della vita nello slum.

E tutto questo ci porta al tema della capacità di avere aspirazioni. Si tratta di una capacità con cui verificare la propria posizione nel mondo e nella vita per poi pianificare una rotta da seguire verso una posizione migliore; una capacità, quindi, che permette alle persone di farsi avanti a partire dai bisogni più prossimi per giungere fino ai mondi più lontani cui aspirano e che è distribuita in modo disomogeneo fra le comunità ricche e quelle povere. Io sostengo che questa capacità sia meno sviluppata nelle comunità povere (sia rurali che urbane) proprio perché l’archivio di esperienze e storie grazie al quale le comunità più ricche riescono a innervare l’immaginazione che è alla base della capacità di avere aspirazioni, ecco, tale archivio è precisamente ciò che manca ai poveri – essendo in pratica tale deficit esperienziale il marchio della povertà. In virtù di tutto ciò, avanzo l’idea che la lotta fra individui e comunità per quanto concerne il riconoscimento, parte essenziale dello sforzo delle famiglie povere di migliorare la propria condizione nelle economie locali della dignità, possa essere migliorata solo rafforzando la capacità di avere aspirazioni. Questa serie di ragionamenti interconnessi relativi alla capacità di aspirare si basa su una visione secondo la quale affinché avvenga un cambiamento duraturo nella distribuzione delle risorse, ai poveri deve essere dato potere di acquisire e far sentire la propria “voce”, un fattore che è stato ampiamente riconosciuto dagli studiosi dello sviluppo e da chi opera attivamente sul campo. Non ancora adeguatamente riconosciuto, però, è il fatto che affinché quella “voce” possa venire espressa con regolarità ed efficacia dalle persone più povere, che si trovano in condizioni di radicale disuguaglianza in quanto a potere e dignità, è necessario che la loro capacità collettiva di aspirare cresca in modo continuativo e duraturo. Il lavoro organizzativo e i rituali pubblici quotidiani dell’Alliance sono un esempio eccellente di comunità organizzate di poveri che hanno scoperto numerosi modi per potenziare la propria capacità di avere aspirazioni e, in questo processo, hanno trovato la maniera di portare chi è al potere a varie forme di accordo, formale e informale, affinché cooperi.

Se teniamo a mente l’idea che qualsiasi cambiamento nella distribuzione della capacità di aspirare potrebbe influire in modo impressionante sul riconoscimento delle comunità povere di ogni tipo, allora il cosmopolitismo obbligatorio diventa una risorsa fondamentale per raggiungere lo scopo. Infatti, sia il micro-cosmopolitismo delle comunità federative di poveri in contesti urbani – di cui ho parlato in precedenza – sia le pratiche che accrescono la capacità di avere aspirazioni attingono all’abitudine di immaginare possibilità, piuttosto che a quella di arrendersi alle probabilità di un cambiamento imposto dall’esterno. Ed è inevitabile che immaginare futuri possibili, concreti nella loro immediatezza ma allo stesso tempo vasti nei loro orizzonti a lungo termine, tragga nutrimento e prosperi dalle pratiche comunicative che allargano gli orizzonti culturali. Nel mentre tali orizzonti sono ampliati dalle famiglie e dalle comunità povere, queste guadagnano l’accesso alle storie e alle esperienze di altri, relative non solo ad avversità e sofferenza ma anche a movimento e successi. In un mondo multilingue e multiculturale, l’ingrandirsi di tale archivio attraverso le dinamiche del cosmopolitismo obbligatorio, aggiunge velocità e profondità al rafforzamento della capacità di aspirare, il cui carburante principale sono storie credibili (relative al proprio mondo più prossimo) sulla possibilità di farsi avanti, di uscire da una condizione limitante, di innalzarsi, anche se magari ci si sta prendendo cura di un tetto che perde o di un bimbo malato in una fragile baracca sulle strade di Mumbai.


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