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Le tante povertà di oggi, viste dal Centro di Ascolto

Gaia Lauri e Gabriele Liaci, assistenti sociali del Centro di Ascolto della Casa, raccontano quali sono, oggi, le povertà che bussano alle porte della Fondazione.

Il Centro di Ascolto è, per molte persone che si rivolgono alla Casa della Carità, il luogo di primo contatto con la nostra Fondazione. Il centro è anche un osservatorio privilegiato rispetto alle fragilità che attraversano la città di Milano.

Abbiamo incontrato Gaia Lauri e Gabriele Liaci, i due assistenti sociali della Casa che coordinano il centro di ascolto, dove operano anche volontarie e volontari, per capire con loro quali sono, oggi, le povertà che bussano alle porte della Fondazione.

Chi sono le persone che si incontrano oggi al centro di ascolto e quali sono le difficoltà principali che affrontano?

Lauri: Il fenomeno principale, che stiamo osservando ormai da alcuni anni, è l’arrivo di tantissime famiglie sudamericane, nella maggior parte dei casi peruviane ma non solo, che sono molto numerose o hanno con sé bambini con bisogni sanitari importanti, con disabilità o autistici. In molti casi, la mancanza di documenti non permette loro di avere una residenza e senza la residenza non possono accedere ai servizi sanitari, tra cui per esempio l’UONPIA (Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza, ndr).

Inoltre per loro, ma direi per tutti quelli che arrivano al centro di ascolto, il problema principale è quello dell’abitazione: queste persone o non hanno un posto dove vivere, oppure abitano in posti estremamente affollati, magari piccole stanze in appartamenti con altre mille persone, o in situazioni di fortuna. Ieri, per esempio, ho visto una famiglia peruviana, con 5 figli che vive in un capannone, per cui comunque pagano 800 euro. Quindi avrebbero anche una piccola disponibilità economica, ma sul mercato non riescono a trovare altro.

Liaci: Aggiungo che c’è una mancanza di chiarezza – o, in certi casi, una vera e propria prassi poco trasparente – rispetto alla gestione delle situazioni che coinvolgono madri con figli minori che si trovano in strada o a rischio di finire in strada. Quando queste donne hanno i documenti in regola, esiste un sistema che, pur con le sue difficoltà, permette un certo tipo di intervento. Tuttavia, nel caso – purtroppo molto frequente – in cui siano prive di documenti, si entra in una sorta di limbo: non è chiaro quali siano i passaggi da seguire né come si possa realmente uscire da quella situazione. Le risposte istituzionali, in questi casi, sembrano più basate sull’esperienza soggettiva di chi interviene che su procedure definite. Può capitare che un caso venga accolto in un certo modo una volta, e diversamente un’altra volta, senza una logica.

Dall’altra parte dico anche che è chiaro che i servizi a Milano, come in altre città, non riescono a sostenere da un punto di vista abitativo tutte queste situazioni, c’è una difficoltà veramente forte a reperire soluzioni alloggiative, che devono essere adatte a ospitare un minore, che di certo non può andare in un dormitorio pensato per l’emergenza freddo.

Oltre a chi arriva per la prima volta in cerca di aiuto, incontrate anche persone che hanno già attraversato percorsi di accoglienza e aiuto?

Liaci: Ci sono persone che già conoscono un po’ i servizi di aiuto della città e quindi arrivano con l’idea di capire se la Casa della Carità possa essere qualcosa in più rispetto al dormitorio a bassa soglia. Un’altra situazione, purtroppo abbastanza frequente, è l’arrivo di persone che magari hanno già fatto dei lunghi percorsi di accoglienza, per esempio nei centri del SAI (il Sistema di Accoglienza e Integrazione, ndr), e che purtroppo si ritrovano in strada. Da una parte, questo può essere l’indizio di una situazione che non si è riuscita a sbloccare o una una persona che non è riuscita a rendersi autonoma; dall’altra, questo fenomeno fa capire che a volte i tempi previsti dal sistema non sono funzionali all’effettiva integrazione di una persona, che magari sta anche molto male, su un territorio. È come se a queste persone venisse dato un pacchetto, che a un certo punto scade, e se non sono riuscite a giocare le loro carte in tempo, tornano al punto di partenza. E da qui riprendere un percorso positivo diventa complicato, anche perché le persone non possono più rientrare nel sistema pubblico. Gli viene ripetuto, come un mantra “che hanno già avuto la loro occasione”.

Lauri: Questo vale per gli adulti, ma purtroppo anche per tutti i ragazzi che escono dalle comunità per minori stranieri non accompagnati, che a 18 anni devono lasciare il sistema di accoglienza, ma di fatto non hanno nulla in mano. Ultimamente ho visto che c’è stata un’apertura sul prosieguo amministrativo, ma comunque il tempo a disposizione di questi ragazzi è poco e spesso, quando devono lasciare le comunità, non sono ancora pronti per stare in autonomia fuori, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista lavorativo. Quindi venendo a chiedere aiuti a noi o rivolgendosi ai dormitori a bassa soglia, dove magari non erano mai stati prima, essendo stati subito accolti in comunità, è come se facessero un passo indietro.

Come si manifesta oggi la povertà economica nelle persone che incontrate?

Liaci: sul tema economico, a noi non arrivano richieste di contributi o sostegno per le spese o le bollette, perché magari vanno su altri canali, la parrocchia, il Siloe (Servizi Integrati Lavoro Orientamento Educazione della Diocesi di Milano, ndr) o magari si rivolgono ad altre organizzazioni per l’aiuto alimentare…

Lauri: quelle che vediamo, magari, sono situazioni particolari, per esempio di persone in uscita dal carcere. Fino a che c’era il Reddito di Cittadinanza, nei primi tempi, finché non trovavano un lavoro, riuscivano a sostenersi. Con il passaggio all’Assegno di Inclusione, i criteri di accesso sono diventati molto più stringenti tra cui, ad esempio, c’è il fatto di non aver avuto o di non essere stati sottoposti a misure restrittive della libertà o non aver ricevuto condanne negli ultimi 10 anni, che è un tempo lunghissimo. Quindi tutta una fetta di popolazione adesso è esclusa da questa misura.

Vedete anche un tema di povertà di relazioni?

Lauri: La povertà di relazioni e di comunità la vediamo manifestarsi soprattutto nel momento in cui una persona esce da percorsi protetti — come la Casa della Carità o altri progetti di accoglienza — e riesce finalmente ad accedere a una casa popolare. Capita che dopo qualche tempo queste persone stiano male di nuovo. Si tende infatti a pensare che basti  avere una casa per stare bene; in realtà, se intorno alla persona non ci è creata una comunità, una rete di sostegno, avrai pure un posto per dormire e da mangiare, ma c’è una povertà di relazioni, quando stai male non non hai nessuno a cui dirlo.

E su questo c’è una mancanza del sistema pubblico?

Lauri: Diciamo che, talvolta, il servizio pubblico tende a demandare al terzo settore. Per esempio, per una nostra ex ospite che è andata in casa popolare, avevamo provato ad attivare i servizi sociali di zona, i quali, avendo visto che noi avevamo costruito una bella rete “informale” attorno alla persona, hanno pensato che non fosse necessario attivare altro dal punto di vista istituzionale…

Liaci: Qualche anno fa non era così, una persona poteva essere seguita tranquillamente dalla custodia sociale, poi con il nuovo bando questo servizio si è molto burocratizzato. C’è da aggiungere poi il tema del contesto: alcuni quartieri popolari sono così ghettizzati che ognuno tende a farsi un po’ i fatti propri, ci sono situazioni di illegalità, spaccio… insomma, il vicinato non è sicuro e si fa fatica a costruire delle relazioni.


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