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Fraternità: il vero nome del volontariato

Una riflessione del nostro presidente don Paolo Selmi sul tema del volontariato, a cui è dedicata la newsletter di settembre della Casa.

Riflettendo sul senso del volontariato, desidero innanzitutto dire “grazie” a tutte e tutti coloro che “affondano testa e mani” nella pasta dell’umanità, e in particolare dell’umanità ferita. Grazie perché non stanno alla finestra a guardare!

Un grazie particolare alle volontarie e ai volontari della Casa della Carità, perché contribuiscono a portare avanti la mission della Fondazione, le cui iniziative, come scritto anche all’articolo 2 dello Statuto, devono essere “animate da una forte presenza di volontariato”.

Fatti questi ringraziamenti, vorrei condividere alcune suggestioni, e parto dalla parola “volontario”, inteso come aggettivo, che vuol dire: “dipendente dalla volontà individuale del singolo”. E va benissimo, fa bene a tutti una libertà che si mette in gioco per gli altri.

Però mi va di offrirvi qualcosa “di più”, che potrebbe essere sia il punto di partenza che di arrivo: anziché definirsi volontario o volontaria, perché non “definirsi” fratello o sorella?

Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che è una questione formale, ed è vero. Ma leggete quanto scritto in “Lettera a Sila”, da Silvano Fausti (1940-2015), gesuita di Villapizzone:

“La carità non consiste nel risolvere il problema del fratello, ma il tuo problema di essergli fratello. Non devi sfamare gli affamati. Devi solo condividere il tuo pane con la fame dell’altro. Così farai quel gesto, semplice e possibile a tutti, che se tutti lo facessero, risolverebbero il problema. La fame c’è perché non c’è solidarietà. Invece di dare per misericordia un sollievo a chi percuoti, smetti di percuoterlo. Anche se non sembra risolvere immediatamente nulla – e anche se ti costa molto di più! – la solidarietà e la condivisione è l’unica via per togliere il male. Non la povertà è il male, MA l’ingiustizia che ne è la causa”.

Aggiungo, a questa citazione di Fausti, un’altra di don Lorenzo Milani che non fa altro che “rincarare” la dose, invitandoci ad andare sempre più alla radice del nostro farci vicino agli “scarti”, come vengono considerati da questa società gli ultimi:

“Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte”. (Lettera a una professoressa)

E quella del volontariato è una scelta di prossimità e vicinanza intelligente, per la promozione della persona, perché il bisogno ha sempre un nome e un volto. Significa che davanti a una persona lo sguardo deve cogliere l’interezza del suo bisogno, non solo di pane, ma anche di amicizia, di compagnia.

Significa anche che il rapporto con la persona che ha bisogno non può non aprirsi a un impegno sociale e politico, perché il bene della persona dipende anche dal contesto in cui vive. La carità perciò non può ridursi a qualche gesto sporadico o a buone intenzioni di stampo assistenzialista. Occorre una disponibilità a lasciarsi interpellare in maniera radicale dalla realtà. Non è un atto ideologico, non è autocompiacimento ma scelta di costruzione di una società più giusta.

Essere prossimo significa essere socio di una società. Per cui l’amore all’umano non può non diventare capacità di denunciare le ingiustizie e ricostruire uno sviluppo nuovo, un nuovo modello, perché, come diceva anche Benedetto XVI “I poveri non hanno bisogno di opere di carità, bensì di giustizia”.

E ancora, il capitolo 10 del Vangelo di Luca, conosciuto come la Parabola del Buon Samaritano, inizia così: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Un uomo, dunque, semplicemente un uomo! Non occorrono specificazioni o aggiunte: è la sua dignità di essere umano che fa fermare il samaritano a soccorrerlo.

E infine, il rabbino Pinchas pose ai suoi allievi una domanda apparentemente semplice su quando finisce la notte e inizia il giorno.

«È quando c’è abbastanza luce per distinguere un cane da una pecora», suggerì uno di loro. «È quando posso distinguere un gelso da un fico», argomentò un altro. «È nel momento esatto – rispose il rabbino Pinchas – in cui possiamo riconoscere nel volto di qualsiasi essere umano il nostro fratello. Finché non riusciamo a farlo, è ancora notte».

E allora non siamo volontarie e volontari perché aiutiamo, ma sorelle e fratelli perché ci riconosciamo. E questa è la luce che fa finire la notte.

[In apertura: don Paolo Selmi quando era sacerdote della Parrocchia di Bruzzano, con volontarie e volontari del progetto della Casa della Carità per l’accoglienza estiva dei profughi]


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