Leggi l’editoriale del presidente della Casa don Paolo Selmi, pubblicato da Avvenire per il Giubileo della Speranza
Pubblichiamo l’editoriale del presidente della Casa della Carità don Paolo Selmi, dal titolo “Speranza è camminare insieme. Lo si impara a fianco degli ultimi”, apparso su Avvenire domenica 1 giugno 2025, nella rubrica “In che cosa speriamo”, in occasione del Giubileo della Speranza.
In cosa speriamo. Speranza è camminare insieme. Lo si impara a fianco degli ultimi
Anche in tempi difficili la possibilità di sperare esiste: la troviamo nel dono fecondo a chi ha bisogno, in quell’eccesso di gratuità che è il Vangelo, quando ci affidiamo a Dio.
In mezzo all’oscurità di tempi carichi d’odio e bruttura come quelli che stiamo attraversando, segnati da guerre che non finiscono, anzi si moltiplicano, esiste un possibile cammino di speranza? Come possiamo, noi uomini e donne di fede, affrontare il buio di diseguaglianze che crescono insopportabili? Possiamo continuare a guardare con fiducia al futuro, se siamo immersi in una società dove il diverso non è ricchezza, ma un nemico da allontanare dal nostro sguardo? Una prima risposta a queste domande l’ho rinvenuta nel messaggio per la scorsa Quaresima del nostro amato Papa Francesco, in cui ci ha invitato a camminare insieme nella speranza, ovvero a: «essere tessitori di unità a partire dalla comune dignità di figli di Dio; a procedere fianco a fianco, senza calpestare o sopraffare l’altro, senza covare invidia o ipocrisia, senza lasciare che qualcuno rimanga indietro o si senta escluso. Andiamo nella stessa direzione, verso la stessa meta, ascoltandoci gli uni gli altri con amore e pazienza».
Questo invito a camminare insieme l’ho ritrovato molto forte nella storia di Jalil, un uomo afghano con cui da quattro anni, alla Casa della Carità di Milano, stiamo condividendo un pezzo di strada, dopo che lui e la moglie Kamila sono scappati dal loro Paese, a seguito del ritorno al potere dei talebani nel 2021. A Milano, Jalil e Kamila si stanno costruendo una nuova vita e la vigilia dello scorso Natale è nata Delara, la loro prima figlia. Il suo nome significa “adornare il cuore” ed è la gioia della loro casa e di questa famiglia, che però si trova ad affrontare una dura prova: la piccola è stata colpita da una grave malattia, di quelle che lasciano attoniti. Il quadro è particolarmente delicato, ma Delara rimane attaccata alla vita con tutta l’esile forza che i suoi pochi mesi sanno sprigionare. Ogni giorno, operatrici e operatori della Casa della Carità e del reparto di rianimazione sono accanto a Delara, Kamila e Jalil e “camminano nella speranza” insieme a questa famiglia.
Un pomeriggio di marzo sono andato a trovarli in ospedale e con Jalil abbiamo fatto due passi tra i padiglioni e gli edifici della Ca’ Granda, da secoli espressione della cura nella città. Durante la nostra passeggiata, Jalil mi ha fatto vedere un testo in persiano. Lo ha scritto qualche anno fa, proprio nel mese di marzo. Mi ha detto: «Lo sai, non sono un uomo molto religioso, tuttavia queste parole che ho scritto in un momento in cui ero particolarmente felice, ora le ho ritrovate e mi sono care, mi aprono a Dio». Scrive Jalil: «L’uomo è una creatura straordinaria, dotata di intelligenza e genialità fuori dal comune, ma, nonostante tutto ciò, è anche estremamente fragile. Gli esseri umani: alcuni sono rifugio per gli altri, mentre altri sono senza riparo; alcuni sono fonte di speranza, mentre altri sono un peso; alcuni sono motivo di orgoglio per l’umanità, mentre altri causano sofferenza e dolore. Una storia paradossale! Questa è la vita; a volte ti trovi in una situazione in cui non c’è rifugio, né speranza, né via d’uscita. Ed è proprio questa disperazione che ti spinge verso un’altra sponda: quella della disperazione, che diventa il rifugio di Dio. In quel momento, Dio diventa l’unico rifugio per le difficoltà dell’uomo».
Queste parole, semplici e profonde, ci mostrano come anche nel dolore più grande possa nascere una speranza. Con grande delicatezza, Jalil mi ha reso parte del suo cammino e grazie a lui ho intuito il significato più profondo del «camminare insieme nella speranza». Un’altra risposta alla domanda iniziale l’ho individuata nella bolla di indizione del Giubileo ordinario che stiamo vivendo in questo 2025, in cui Papa Francesco, citando San Paolo, ci ha chiesto di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13), perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza».
Mi viene in mente una delle grandi lezioni che ci ha lasciato il cardinale Carlo Maria Martini, sull’«eccedenza della carità». «L’eccesso di bene – dice Martini – si ha tutte le volte che si compiono dei gesti che non sono di puro do ut des, cioè di pura giustizia, ti do tanto e mi dai tanto. Si ha tutte le volte che si supera con gratuità questo livello rigoroso del dare e avere. Questo eccesso, questo andare oltre, è proprio il Vangelo; il Vangelo non è equilibrio, è squilibrio». È in questo sbilanciamento che la speranza prende forma e ci aiuta ad attraversare questo tempo e a guardare con fiducia al futuro. Siamo chiamati, ha detto ancora Francesco, «a essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle» e, come sempre, la sua attenzione è rivolta alle persone più fragili: i detenuti, gli anziani, gli ammalati, i giovani, le persone migranti, i poveri. Questo seme di speranza lo vedo negli sguardi delle persone ospiti della Casa della Carità, che con il sostegno di operatrici e operatori, volontarie e volontari provano a rialzarsi da una caduta, e negli occhi delle decine di uomini, donne e minori che ogni giorno bussano alla porta di questa grande casa per chiedere un aiuto o che, semplicemente, domandano di essere ascoltate. La vita di queste persone è segnata dalla sofferenza, è scoraggiata, spesso perché hanno già ricevuto molti “no” o sono rimbalzate da un ufficio all’altro senza trovare risposte, senza trovare da nessuna parte nemmeno un barlume di speranza.
Da alcuni anni, queste persone sono accolte in uno spazio che abbiamo chiamato “Malabrocca”, richiamando l’affascinate figura del ciclista Luigi Malabrocca, che negli anni ’40 del Novecento arrivava ultimo di proposito al Giro d’Italia perché in questo modo riceveva comunque il premio riservato alla “maglia nera”. La sua era una strategia per vincere in un altro modo. Ecco, la nostra speranza è proprio questa: che anche gli ultimi tra gli ultimi possano vincere, perché conquistano i propri diritti, perché anche chi resta indietro ha un valore e un posto nel mondo. Nell’anno del Giubileo della Speranza, la Casa della Carità ha scelto di rendere la porta del Malabrocca un simbolo di accoglienza ancora più forte, trasformandola in una “porta santa”. Non è un atto ufficiale, ma sappiamo che a Papa Francesco non interessava l’ufficialità, poiché affermava che ogni porta può essere una porta santa.
Ma che cosa rende santa la porta del Malabrocca? È il fatto di desiderare di attraversarla portando dentro la speranza di un incontro. Da qui, infatti, entreranno nella casa quei “pellegrini”, che sceglieranno di vivere con noi il Giubileo, un’iniziativa che abbiamo pensato per incontrare le comunità parrocchiali della Diocesi di Milano, ma che è naturalmente aperta a quanti desiderano partecipare. Abbiamo scelto che questo pellegrinaggio parta proprio da questo ingresso, affinché chi parteciperà possa sentire come propri e non come estranei i passi delle decine di persone che quotidianamente attraversano questa porta, possa immaginare i loro volti e il loro sguardo, possa ascoltare il loro grido di aiuto e i loro desideri, possa lasciarsi interrogare dalle storie di queste persone, facendole proprie e camminando insieme a loro nella speranza.
Proprio quella speranza che, quando fondò la Casa della Carità 23 anni fa, il cardinal Martini auspicava per Milano. Nel suo discorso di commiato – rivolto al Consiglio Comunale e intitolato «Paure e speranze di una città» – disse che la Casa doveva essere uno «Sguardo sulla città», un luogo dove il prendersi cura degli «sprovveduti» doveva mettere in moto cultura e promozione di dignità e diritti, per costruire una metropoli capace di «vincere le paure, coltivare la speranza e continuare a operare secondo ideali di giustizia e di bene comune».
Sacerdote, presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani” di Milano
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