Intervista a Enrico Gargiulo, professore di Sociologia all’Università di Bologna e tra i massimi esperti sul tema della residenza.
Abbiamo intervistato Enrico Gargiulo, professore di Sociologia all’Università di Bologna e tra i massimi esperti sul tema della residenza, che ha coadiuvato la campagna “Sei la mia città”, nella stesura dell’appello rivolto al sindaco e alla Giunta del Comune di Milano, per chiedere l’estensione del diritto alla residenza.
Professor Gargiulo, che cos’è la residenza?
La residenza è uno strumento banalmente amministrativo, ma che in realtà contiene delle importantissime funzioni e quindi, in questo senso, è uno strumento altamente politico, non soltanto tecnico.
Dalla prospettiva dello Stato la residenza è uno strumento per vedere le persone del territorio, per sapere dove sono e per allocare in maniera efficace le risorse; la logica è io so quante persone ci sono in un comune attraverso la residenza e destino lì le risorse proporzionali alla numerosità. Dal punto di vista delle persone, la residenza è la porta d’accesso burocratica ai servizi, quindi è il canale concreto per esercitare i diritti.
In Italia, infatti, per ragioni amministrative, giuridiche e politiche, da subito dopo l’unificazione, l’esercizio effettivo di numerosi diritti è stato legato all’iscrizione anagrafica, cioè all’avere una residenza. In alcuni casi il legame tra residenza ed esercizio di diritti è sancito dalla legge, come la legge 328 quadro dei servizi sociali, che dice che la presa in carico di una persona a livello locale avviene nel comune di residenza. In altri casi questo legame non è definito in maniera esplicita dalla legge, ma di fatto è interpretato come tale dalle amministrazioni incaricate, quindi si è creata questa situazione per cui una persona può essere titolare di tutti i diritti del mondo, ma se non ha la residenza anagrafica quei diritti non li può esercitare.
A proposito appunto del fatto che la residenza è uno strumento politico, lei sostiene che l’anagrafe è spesso impiegata come strumento di sicurezza urbana e di selezione della popolazione. Che cosa significa?
L’anagrafe nasce come strumento di monitoraggio capillare e continuo del territorio, per sapere dove sono le persone e come si spostano; questa è la ragione per cui lo Stato centrale inventa l’anagrafe e fa sì che venga applicata in maniera uniforme su tutto il territorio.
Molti comuni, però, la vedono invece come uno strumento di selezione, perché dal loro punto di vista avere come residenti persone povere, malate, indigenti significa pagare per loro le spese del welfare e questa questione esplode già alla fine dell’Ottocento quando, con la Legge Crispi del 1890, avviene la prima riforma dei servizi sociali, che dice che le spese di ospedalizzazione sono a capo del comune di residenza e non di quello dove la persona è curata. Per fare un esempio, se una persona curata a Milano è residente a Como, i costi di quel ricovero spetterebbero a Como. Già da allora comincia dunque questo rimpallo tra comuni che non si vogliono accollare le persone povere o le persone che in qualche misura rappresentano per loro un costo.
In questo senso l’anagrafe diventa uno strumento di selezione della popolazione desiderabile; la selezione, però, è incompatibile col monitoraggio. Questa è la cosa interessante, che dalla fine dell’Ottocento l’anagrafe è uno strumento sottoposto a una tensione strutturale tra la ragione per cui è concepita e la logica con cui è effettivamente utilizzata da molti comuni.
Chi sono le vittime di questa selezione?
Quelle categorie di persone che sono considerate sgradite e per le quali si è creata quest’idea per cui sono un pericolo per il decoro o addirittura una minaccia per la sicurezza, semplicemente perché sono brutte da vedere, sono povere, sono sporche, disturbano. Sono le persone vagabonde, le persone rom, le persone straniere in generale; queste persone non le voglio e quindi non do loro la residenza.
Negli anni la questione è diventata più simbolica che non strettamente economica e col tempo sono cambiate anche le tipologie di “indesiderabili”. Alla fine dell’Ottocento, per esempio, non c’erano immigrati dall’estero, anzi erano gli italiani a emigrare e spesso non venivano cancellati dall’anagrafe, perché non rappresentavano un costo, ma anzi una risorsa per i comuni. Questo doppio gioco – non vedere le persone presenti, ma povere e indesiderabili, e far finta di vedere persone che non ci sono – è una costante della storia italiana.
Gli anni ‘90 sono un momento di svolta, perché il numero di persone che entrano supera quello delle persone che escono e, parecchie ricerche lo stanno mostrando, cambia il discorso pubblico sulle persone straniere e si crea l’equazione “migrazione uguale insicurezza” e le persone straniere sono viste come minaccia. Quindi fino ad allora le persone indesiderabili erano i Rom, i poveri, i vagabondi italiani; da allora si aggiungono persone straniere.
In questa selezione da qualche anno, cioè da quando è stata approvata la legge Renzi-Lupi, ci sono anche le persone costrette ad accettare affitti in nero e chi ha occupato abitazioni per necessità. Ci può spiegare brevemente che cosa prevede questo articolo e quali sono le conseguenze?
Nel 2014, Lupi, all’epoca Ministro delle Infrastrutture e Renzi, Presidente del Consiglio, vollero questo Piano casa il cui articolo 5 dice che chi occupa abusivamente un immobile non può prendere la residenza in quell’immobile né ottenere l’allaccio delle utenze.
Cosa succede negli anni? Il Ministero dice ai comuni che, per l’iscrizione anagrafica, oltre alle solite informazioni devono chiedere alle persone di fornire indicazioni sul titolo di occupazione di quegli immobili. Per questo basterebbe una semplice autocertificazione, in cui la persona dice che è proprietaria, ha un affitto, un comodato d’uso gratuito o altro. Ma i comuni non si accontentano di questa cosa e chiedono una sorta di autorizzazione ai proprietari degli immobili, il che significa che non sono soltanto le persone occupanti in senso stretto a ricadere nell’articolo 5, ma anche chi ha affitti in nero, contratti scaduti o un proprietario che non collabora, che nega la firma sul modulo, che non rinnova i contratti o che per qualunque ragione non vuole che risultino persone residenti in casa sua e quindi si oppone a che la persona possa ottenere la residenza.
E qui c’è una stortura giuridica totale perché la residenza è una relazione che riguarda la persona e l’amministrazione, il proprietario immobiliare non c’entrerebbe nulla nella logica anagrafica: l’anagrafe vuole vedere chi c’è sul territorio e non è interessata a chi possiede quella dimora, è interessata a chi ci vive. Quindi quest’idea che il proprietario abbia voce in capitolo è una stortura totale.
Le persone escluse dall’iscrizione anagrafica vengono così spesso iscritte negli indirizzi virtuali per senza dimora. Perché invece è importante che a loro venga riconosciuta la residenza “ordinaria”?
L’articolo 5 ha introdotto una distorsione, perché finisce per coinvolgere anche persone che non occupano abusivamente e per questo, nel tritacarne dell’iscrizione tramite domicilio e dell’interazione con realtà come Casa della Carità, finiscono persone diversissime: studenti fuori sede a cui non viene rinnovato il contratto, migranti che vivono in condizioni precarie, venditori ambulanti, lavoratori stagionali che si spostano continuamente ma per cui la città, Milano in questo caso, è il centro degli interessi.
La legge anagrafica del ’54 e il regolamento attuativo dell’89, però, dicono molto chiaramente che chi vive in Italia ha diritto e dovere all’iscrizione anagrafica: se ho una dimora abituale, devo dichiararla. Se non ce l’ho, devo comunque indicare un domicilio, ossia il comune che scelgo come centro dei miei interessi e che diventa il mio comune di residenza. Quindi, homeless o non homeless, poveri o non poveri, vulnerabili o no: chi non ha una dimora abituale ha comunque diritto all’iscrizione anagrafica in un comune scelto come domicilio. Non serve “dimostrare” una presenza stabile nel territorio: la legge riconosce il diritto di residenza anche a chi si sposta continuamente.
Ma cos’è successo? Che i comuni hanno frainteso – a volte in modo strumentale – e hanno preteso un radicamento fisico. A Milano, questo si è tradotto in un sistema che delega al terzo settore, che si trova suo malgrado a essere complice di questa stortura, il compito di filtrare e certificare l’effettività del domicilio. Una funzione che, invece, dovrebbe essere svolta direttamente dall’amministrazione comunale, come impone la legge statale, e le “prove” richieste possono essere blande: una mensa frequentata, un parente, una rete di conoscenze.
È chiaro che questo crea un problema ai comuni, che temono di caricarsi persone che magari non risiedono stabilmente sul loro territorio. Ma, volenti o nolenti, la legge tutela anche chi ha legami mobili o deboli, purché scelga quel comune come centro dei propri interessi.
Quindi, a mio parere, l’intero sistema va ripensato, o meglio, va ripensata l’interpretazione dell’iscrizione anagrafica. Perché oggi si sommano una serie di storture che creano un meccanismo perverso.
La campagna “Sei la mia città”, cui aderisce anche la Casa della Carità, chiede proprio questo, di riconoscere l’iscrizione anagrafica a tutte le persone cui spetta la residenza ordinaria e chiede una deroga all’articolo 5 della legge Renzi-Lupi. Alcune città lo hanno già fatto…
Nel 2017 l’allora Ministro dell’Interno Minniti ha previsto una deroga a quest’articolo 5, nel caso della presenza di minori o di persone vulnerabili. In alcune città sono dunque nate delle reti che hanno chiesto alle amministrazioni di rendere sistematica questa deroga, e il sindaco Gualtieri a Roma è stato il primo a dire alla sua amministrazione di derogare all’articolo 5 in presenza di queste condizioni. Successivamente altre città, come Torino e Palermo, l’hanno fatto.
La campagna chiede semplicemente di applicare questa deroga, quindi di applicare la legge, non chiede al comune di violare la legge, anche se per buoni motivi, chiede semplicemente di applicare la deroga prevista da Minniti.
Perché è importante, anche politicamente, che proprio i comuni si muovano?
È importante perché possono dire allo Stato, “vogliamo invertire la rotta, smettere di fare selezione e gestire correttamente l’anagrafe. Per farlo serve che vengano rimosse quelle misure, come l’articolo 5, che hanno distorto la funzione dell’anagrafe nel tempo e rendono impossibile quella fotografia del territorio che l’anagrafe dovrebbe fare”.
Se alcuni soggetti, sindacati, partiti cominciassero a esporsi di più sul tema, anche se la congiuntura certo non è delle migliori, qualcosa si potrebbe muovere.