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Oltre la maschera, il coraggio di mettersi in gioco

Studentesse e studenti dell’ITSOS “Albert Steiner” di Milano hanno partecipato al laboratorio di teatro “La maschera: oggetto simbolico, narrazioni e auto narrazioni sulla diversità”.

Nell’ambito del progetto “Diversità e diritti, una risorsa comune, studentesse e studenti della 4H dell’ITSOS “Albert Steiner” di Milano sono stati coinvolti nel laboratorio di teatro “La maschera: oggetto simbolico, narrazioni e auto narrazioni sulla diversità”, co-condotto dagli operatori della Casa della Carità Alberto Pluda e Serena Pagani, insieme alle colleghe della Biblioteca del Confine Chiara Mazzucco e Cecilia Trotto.

Serena Pagani ci ha raccontato com’è andato questo percorso, le difficoltà iniziali e il sorprendente esito finale.

La richiesta iniziale e le prime resistenze

«La richiesta di svolgere questo laboratorio è arrivata da una docente, poiché gli studenti arrivavano da percorsi differenti e non si percepivano come gruppo. Magari si relazionavano tra loro a coppie o a piccoli gruppi, ma non si percepivano come classe. C’erano poi una serie di dinamiche di chiusura, giudizio, atteggiamenti evitanti e per questo la professoressa ci ha chiesto di lavorare sull’inclusione», esordisce Serena.

Serena e Alberto hanno dunque impostato un percorso basato sugli strumenti della teatroterapia che, per esempio attraverso giochi teatrali e un lavoro sul corpo, portasse gli studenti a esprimere la propria identità per poi collocarla nel gruppo classe: «In realtà – dice Serena – i primi incontri ci hanno notevolmente spiazzati, perché abbiamo trovato molta resistenza da parte dei ragazzi, molta paura di mettersi in gioco e del giudizio degli altri. Alcuni di loro erano proprio bloccati».

I due operatori hanno quindi iniziato a rivedere di volta in volta le loro proposte e sembrava che si sciogliessero dei nodi, ma poi la volta successiva si doveva ripartire da capo.

Cambio di prospettiva: ascolto e fiducia

«A un certo punto abbiamo capito che dovevamo mettere in campo anche altri strumenti oltre a quelli della teatroterapia. Da parte nostra c’è stato proprio un cambio di prospettiva, di sguardo, che ha significato non farci influenzare dalla fotografia della classe che ci avevano dato le insegnanti, per dare uno spazio di parola direttamente ai ragazzi, cercando di capire quali modalità di espressione avessero. Era uno spazio che non avevano mai avuto, perché la loro identità era sempre stata legata al contesto didattico, della lezione, della valutazione e questo creava forti chiusure», spiega l’operatrice.

E qualcosa è cambiato: «Si è creato un clima di fiducia e di totale possibilità espressiva senza giudizio. Abbiamo capito, e il gruppo stesso ha capito, che c’era la voglia di sentirsi un gruppo classe e che il mancato coinvolgimento di alcune persone non dipendeva da una mancanza di interesse, ma da una diversa modalità di espressione di sé».

La maschera come strumento di espressione

Da quel momento, racconta ancora Serena, sono emerse tantissime emozioni, sulle quali si è lavorato utilizzando anche espressioni artistiche, come la pittura e la realizzazione di una maschera: «Inizialmente abbiamo utilizzato dei cartelloni, su cui ognuno era invitato ad appendere un post-it in cui descriveva il proprio essere/non essere come individuo e l’essere/non essere nella classe».

Studentesse e studenti sono poi stati invitati a realizzare una maschera, che fosse una narrazione del loro essere/non essere, dei loro desideri, delle loro fragilità: «Devo dire che con questo lavoro si sono entusiasmati come non avevano mai fatto e poi, in maniera generosa, hanno raccontato agli altri che cosa rappresentava la maschera e che titolo le avevano dato. Tutti si sono messi in gioco e quindi poi abbiamo iniziato a giocare con queste maschere e queste narrazioni», commenta Serena.

Una restituzione collettiva: costruire insieme

L’altro lavoro proposto ai ragazzi è stata la realizzazione di una tela di gruppo, una sorta di scenografia in cui collocare le loro maschere: «In questo hanno davvero lavorato come gruppo, valutando una serie di proposte per poi andare a costruire la loro scenografia, che si è composta da una sorta di pavimentazione bianca e nera, che rappresentava proprio l’essere e non essere, al cui centro hanno collocato un’orbita, una sorta di spirale colorata, che simboleggia quello che stanno vivendo loro, la fatica dell’adolescenza in cui tutto è un po’ totalizzante, ma anche apertura e spazio d’incontro di colori e segni differenti. Hanno però inserito anche delle nuvole, che rappresentano la possibilità di uscire da questi schemi», racconta Serena.

Che aggiunge: «Anche questo passaggio è stato molto bello, perché tutti hanno partecipato lasciando una traccia. Ed è stato veramente commovente vedere in otto incontri un cambiamento così radicale, rendersi conto che questi ragazzi avevano delle risorse pazzesche e avevano solo bisogno di uno spazio, oltre lo spazio scolastico, in cui potessero essere ascoltati, visti, al di là di un voto o di quelli che potevano essere gli obiettivi che uno si era fissato in partenza».

La sintesi si questo percorso è raccontata in un video, totalmente progettato dai ragazzi, in cui hanno voluto condividere il cambiamento nella relazione tra loro, dallo scontrarsi fino all’incontro e all’abbraccio.

Guarda il video


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