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Carcere e lavoro esterno, la voce di una detenuta

Ancora sul caso di Emanuele De Maria e sul lavoro fuori dal carcere, la voce di una persona detenuta, volontaria della Casa.

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di una persona detenuta, che è attualmente una volontaria della Casa della Carità in regime di Articolo 21, a proposito del dibattito nato sulle misure alternative e il lavoro fuori dal carcere, scaturito a seguito di un fatto di cronaca che ha coinvolto una persona che era detenuta nel carcere di Bollate.

Credo sia giusto e doveroso, anche se a pochi interesserà la voce di una detenuta, dire qualcosa rispetto a
quanto accaduto pochi giorni fa. La storia di Emanuele De Maria è ormai virale e non si parla d’altro. Si
cerca una colpa, un errore e si mette in discussione un intero sistema
, che però pochi conoscono a fondo.

Capisco a pieno la rabbia e l’indignazione, e capisco anche che i familiari delle vittime se ne facciano poco di
parole come le mie, ma è davvero giusto tutto questo accanimento?

Si parla di cambiare leggi, di non far accedere a misure alternative chi si è macchiato di un delitto “di
sangue”. E’ sicuramente una reazione umana ad un fatto tanto grave e allo stesso tempo incomprensibile,
ma come si può pensare che possa essere davvero la soluzione ad un problema? Può essere davvero la
cosa giusta “buttare via la chiave” senza dare una speranza ed una possibilità?

Il nostro sistema penale è basato, secondo l’art. 27 della Costituzione, sulla rieducazione, eppure si pensa che solo alcuni possano essere meritevoli di tale beneficio. Perché questa distinzione? Perché non si riesce a vedere i detenuti come persone ma solo come reati? Il nostro sistema, non sarà sicuramente perfetto, così come non lo è ogni essere umano, gli errori purtroppo devono essere messi in conto, anche quelli più gravi, ma non per questo bisogna smettere di provare.

Si è portati a credere che ci sia una sorta di facilità per uscire dal carcere a lavorare, oppure in permesso premio, ma non è così. L’essere nei termini che la legge impone, non significa che ci sia una sorta di automatismo. C’è un iter da rispettare, e non si tratta solo di buon comportamento. Vi faccio un esempio pratico su me stessa: sono entrata nei termini di legge per lavorare all’esterno nel 2018, ma sono realmente uscita nel 2022, passando 4 anni a lavorare all’interno delle mura di San Vittore, poi gradualmente ho iniziato una volta la settimana con il volontariato e poi dopo qualche mese ho iniziato un tirocinio che mi ha portato ad avere un lavoro a tempo indeterminato. Oltre a lavorare fuori, ho avuto la grande possibilità di ottenere anche i permessi premio, ma ci ho messo due anni per poter avere l’avallo del magistrato di poter girare liberamente a Milano, fino a qualche mese fa trascorrevo i miei permessi stando tutto il giorno in un appartamento messo a disposizione da un’associazione.

Dopo aver dimostrato di essere meritevole di fiducia ho ottenuto un allargamento: i benefici devono essere guadagnati, ma ciò non significa che io o chiunque altro sia esente dallo sbagliare. Gli errori fanno parte del nostro essere, piccoli o grandi che siano, perché la perfezione non esiste. Chi ci osserva e scrive relazioni lo fa in un contesto ovattato, la vera osservazione arriva quando usciamo perché, seppur con delle regole da seguire, abbiamo un assaggio di libertà e ci scontriamo con tutta una serie di emozioni, alcune positive e alcune negative.

Stringere “i cordoni della borsa” non può aiutare nessuno, né i detenuti, né tanto meno la società. Se la pena deve avere un senso ad un certo punto la società deve essere disposta a riaccoglierci, aiutandoci ad abituarci gradualmente ad uscire da una campana di vetro che ci contiene. E credetemi non è facile. Si vive di paure: paura di sbagliare, di non essere all’altezza, paura del giudizio degli altri, paura di non essere accettati. C’è chi come me queste paure le affronta, anche se con grande sofferenza e difficoltà, e c’è chi purtroppo non ce la fa e si lascia sopraffare. Io non posso e non voglio giudicare quanto è successo, non ho gli strumenti e non posso conoscere i retroscena che hanno portato alla tragedia, quello che so è che c’è sicuramente bisogno di un cambiamento di pensiero, ma che sia positivo e non giudicante.

È scoraggiante vedere storie come questa date in pasto alla gogna mediatica, e che non si parli invece dei tanti percorsi postivi e di riscatto, perché il carcere è anche questo: non è solo un contenitore del peggio della società. Ci sono persone che ogni giorno escono per lavorare oppure in permesso premio e che con fatica si conquistano un briciolo di spazio e di dignità, ma nessuno ne parla.

Nessuno parla di luoghi come Casa della Carità, che ogni giorno accoglie “persone” e non “detenuti”, tendendo loro la mano e creando le condizioni perché possano in un certo senso riscattarsi. Nessuno parla di giustizia riparativa per il reale significato che rappresenta, e cioè la possibilità di mettere a confronto chi ha commesso un reato, prima con se stesso e con ciò che ha fatto e poi con la sua vittima.

Ci sono molti strumenti messi a disposizione del sistema, ma vengono valorizzati nel modo sbagliato, ed è
scoraggiante. Se il sistema deve funzionare davvero ci vuole impegno e dignità. Non toglieteci la speranza,
perché è una delle poche cose che in carcere fa sopravvivere.

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