«È bello stare qui»

Oggi voglio condividere con te le riflessioni sull’accoglienza delle persone con disabilità alla Casa della Carità, nel solco del Vangelo della Cura, il filo rosso che attraversa il Vangelo sul tema della cura. Ti parlerò di SON, Speranza Oltre Noi, la piccola comunità che ho costruito per accogliere persone con disabilità insieme alle loro famiglie, per poi offrire loro un futuro quando i loro genitori non ci saranno più.
La condizione di fragilità appartiene a tutti noi, non necessariamente nella forma della disabilità. Penso spesso che condividere la propria esperienza possa in parte lenire la sofferenza. Per questo sarei contento se tu volessi aprirti e raccontare il tuo incontro con la fragilità. GRAZIE per la tua amicizia e la tua vicinanza, grazie per le riflessioni che condividerai con me, con noi.

Mai come in questo periodo gli interrogativi sul senso del vivere, sulla capacità di essere in relazione con gli altri, i sentimenti profondi di fraternità, di amicizia e di cura sono messi in discussione in modo radicale. Stiamo vivendo in un periodo dove il demone della guerra trascina con sé l’individualismo esasperato, le chiusure e quella che Papa Francesco richiama continuamente, la “globalizzazione dell’indifferenza”.

“Lasciateci piangere”, (cito ancora Papa Francesco), è l’esortazione che ti offro oggi ragionando sul Vangelo della Cura, perché tutti, insieme, ci prendiamo cura prima di tutto dei sentimenti, perché torniamo a essere capaci di commozione. Vedi, l’incontro con i piccoli, i fragili non significa per le persone che operano alla Casa della Carità un aiuto distaccato, passivo, doveristico, ma un coinvolgimento così profondo da far sentire ogni persona accolta, aiutata, parte della propria storia. E quindi essere capaci di piangere quando anche loro piangono e di aprirsi alla felicità quando anche per loro è arrivata. In questa prospettiva, prendersi cura diventa soprattutto un atteggiamento, non un mestiere, non un’azione esterna che stabilisce confini.

Gesù si prende cura dell’umanità e si ferma.

L’icona del Samaritano, che ha sempre accompagnato la storia di Casa della Carità, ci fa vedere il Samaritano che si ferma e vede un altro sofferente. Gli altri, il levita, il sacerdote, passavano velocemente perché avevano il loro mestiere da fare. Il Samaritano, straniero, che viene, scende da cavallo e si prende cura, addirittura lo accompagna e quando arriva dal locandiere gli dice “Curalo, ti rifonderò al mio ritorno”. La parola cura ritorna lì e ha addirittura questo sapore di futuro, di attesa.

Nei suoi primi 15 anni di vita, la Casa della Carità ha accolto persone di tutte le età, paesi e religioni. Per tutte, la povertà è prima di tutto il bisogno di relazione, di sapienza, di cura, di preoccupazione. Da qualche anno a questa parte, accogliamo sempre più spesso persone con disabilità fisiche oltre a quelle psichiche e quindi la quotidianità della Casa della Carità è stata travolta anche da questa povertà. Certo, prima si accoglieva soprattutto chi veniva da un tragitto diverso, però erano comunque persone che portavano la storia della sofferenza, della malattia, del corpo piegato dalle sofferenze e dalle torture, dello star male.

Quando penso alla cura, al prendersi cura, mi viene spesso in mente il paralitico che viene portato sulla barella a cercare Gesù. Quel giorno, tantissime persone si accalcavano per ascoltare Gesù e allora i quattro che portavano la barella, non potendo fendere la folla, scoperchiarono il tetto e misero il paralitico in prima fila, davanti a tutti. Il Vangelo vuole dirci che per Gesù quel paralitico è la priorità. Ma la sorpresa nell’incontro con questa persona sofferente sta nella sua guarigione. Prima di rivelargli la guarigione del corpo, Gesù gli dice: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Gli dice in altre parole “Cura dentro di te, trasformati in capacità.” È questa la guarigione più importante, quella del cuore, ed è quasi subordinata a quella fisica. Diventa, a partire dal cuore, capacità nel corpo. Solo dopo infatti, Gesù gli dice: “Prendi il lettuccio e vai” e scopriamo da paralitico che era, può andar via sulle sue gambe.

Ecco, sono sempre più convinto che miracolo vero sia quello di essere capaci di trattenere dentro di sé la domanda di attenzione del paralitico del Vangelo, di bisogno di salvezza e di salute che investe tutto il corpo complessivamente, ma parte dalla guarigione del cuore e può venire dall’incontro con l’altro.

Prendersi cura, curarsi vuol dire poter camminare, liberarsi dagli impacci, dalle chiusure. E prima delle barriere vengono le chiusure del cuore. Quel paralitico è il simbolo di un’umanità che è ferma, che è in ricerca anche. Allora si tratta di capire che il limite, la sofferenza, la debolezza appartiene a tutti e che abbiamo bisogno di prenderci cura reciprocamente.

Dobbiamo anche capire che prendersi cura non è un’operazione soltanto sanitaria, di medicina, ma un tessere relazioni, vivere in amicizia, farci toccare dalle sofferenze di chi ci è vicino.

Quando si è avvicinata per me la conclusione dell’esperienza alla Casa della Carità, ho pensato di andare a vivere vicino a questa Casa che mi ha dato tanto, costruendo una comunità per persone con disabilità. Ho sognato una comunità che non fosse estranea al cammino della Casa della Carità, ma che ne fosse una sorta di debita conseguenza. Ho pensato che ci volesse un’esperienza piccola e significativa, carica di affetto, un’esperienza esemplare. Del resto, Gesù ha insegnato il Vangelo con piccoli passi, piccoli esempi. Per me era importante, in continuità con l’accoglienza degli ultimi degli ultimi alla Fondazione, che non fosse un istituto che contiene persone povere e con gravi disabilità, ma un luogo dove sentire che si è accettati e si può contare sugli affetti.

Ho sognato un posto dove chi viene accolto pensi “è bello stare qui”, proprio come dice Pietro a Gesù sul monte Tabor, il monte della contemplazione.

È così che è nata SON, Speranza Oltre Noi, della quale ti parliamo anche nella lettera che trovi insieme a questo numero di Parole di Carità.

Spero con tutto il mio cuore che anche le persone che incontreranno o aiuteranno SON, sapendo che questo pezzetto è generato dalla vita della Casa della Carità, dicano: “È bello stare qui”. E spero di sentir dire “Adesso datti da fare, non stare qui chiuso, moltiplica le abitazioni così piccole, non lasciarti andare”.

Il miracolo è energia.

Sento la tua vicinanza affettuosa nell’accoglienza degli ultimi degli ultimi alla Casa della Carità. Ti chiedo di aiutare le persone con disabilità fisica e psichica accolte nella grande Casa che ormai conosci bene e anche le persone appena accolte nella comunità di SON, con tutta la generosità di cui sei capace.
GRAZIE per quello che potrai fare per ciascuna di loro.

Un abbraccio riconoscente,

P.S. Spero vorrai essere al mio fianco nel tempo, oggi aiutandomi ad accogliere le persone più fragili alla Casa della Carità e domani rimanendo accanto a loro, in quel “dopo di noi” che non ci vedrà protagonisti ma angeli custodi.

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