«Le prese la mano e la fece alzare»

Tante volte abbiamo dialogato sull’accoglienza e l’inclusione, valori irrinunciabili. Oggi ci interrogheremo sul coraggio e la speranza che anima le famiglie dei migranti, che affrontano spesso una separazione per costruire un futuro migliore. Insieme a queste Parole di Carità, leggerai la storia di Graciela, Victor, Santiago e Xavier, di una famiglia peruviana che si è dovuta separare e sta facendo sforzi immani per rimanere unita, accompagnata e sostenuta dalla Casa della Carità.

Vedi, qui alla Casa della Carità l’accoglienza non è solo un atto individuale, ma un impegno collettivo che riguarda l’intera comunità. In questo, cerchiamo di seguire l’insegnamento del Vangelo, in cui il tessuto familiare, le relazioni familiari sono al centro della vita delle persone. Nel Vangelo infatti, la ricerca di una vita migliore è sostenuta dalla rete degli affetti, dalla famiglia in primis. Sotto questo aspetto, il primo episodio che mi viene in mente è quello della suocera di Pietro.

Un giorno, Gesù andò in visita da Pietro, dove la suocera sofferente aveva la febbre molto alta. Gesù la guarì, “le prese la mano e la fece alzare”, perché potesse tornare a partecipare alla vita familiare.

Penso anche al celebre racconto delle Nozze di Cana – il primo miracolo di Gesù – in cui l’acqua venne tramutata in vino. Questi due miracoli, accomunati da una apparente “inutilità”, rivelano la grande importanza data dal Vangelo alla vita familiare, alla convivialità, come territorio di espressione dell’affetto, del legarsi, del condividere. Gesù compie questi miracoli per ridare energia a due famiglie, perché l’ordinario o l’eccezionale possano riprendere con gioia e serenità.

Come possono illuminare l’accoglienza alla Casa della Carità e oggi anche a SON questi due episodi del Vangelo? Perché aver presente l’idea di famiglia, il patrimonio di amore, cultura, legami che ogni persona porta con sé dalle origini, aiuta a riconoscere il valore di ogni persona, sia che provenga da una comunità vicina, sia che arrivi da molto lontano, come le persone migranti che accogliamo. Per questo, è fondamentale accoglierle non solo come individui bisognosi, ma come parte di una famiglia, accogliendo le loro relazioni, aiutandole a coltivarle e quando possibile a ricongiungersi. Per questo, alla Casa della Carità, ci impegniamo a offrire un’accoglienza che vada oltre l’aspetto materiale, che tenga conto della dimensione affettiva.

Nella nostra lunga esperienza di accoglienza, sappiamo infatti che l’ospitalità familiare mette in moto le risposte, la riconoscenza e l’apertura all’aiuto. Una situazione serena, tranquilla permette di progettare davvero presente e futuro. Al contrario, se l’accoglienza è segnata dall’emergenza, la persona si sente schiacciata, pressata e a volte anche forzata a dimenticare le origini, a rompere con il passato. Da queste cesure partono drammi insanabili e futuri difficili.

Nel nostro dialogo sulla speranza di chi lascia la propria famiglia, la propria comunità, don Paolo ha ricordato le storie di Ester e di Giuseppe nel Vecchio Testamento. Sono le storie di due persone straniere in terre straniere, che grazie al coraggio e alla capacità di custodire il patrimonio affettivo e valoriale delle origini, addirittura salvano le loro famiglie e comunità. Ester, diventata regina di Persia, intercede per il suo popolo, il popolo ebreo contro l’annientamento pianificato, mentre Giuseppe, venduto come schiavo in Egitto, diventa un potente governatore e assicura sostentamento per la sua famiglia durante una carestia. Entrambe le storie testimoniano come l’identità culturale e affettiva possa diventare una fonte di ricchezza, di salvezza per la comunità che ospita la persona straniera. Questi racconti ci ricordano anche che “di fronte al dramma della separazione c’è sempre la speranza di un ritorno positivo, di una rinascita” come ci dice sempre don Paolo.

In questi 20 anni, abbiamo compreso l’importanza di tenere conto del tessuto di relazioni e legami che ogni individuo porta con sé e per questo abbiamo creato spazi dedicati alle famiglie e cercato di creare una dimensione familiare per le persone che sono arrivate da sole.

Ecco, qui alla Casa della Carità, ci impegniamo ogni giorno affinché ogni persona che varca le nostre porte si senta accolta e amata come parte di una grande famiglia, nel rispetto profondo delle origini e dei legami che ha dovuto allentare.

Fra queste anche le più giovani, quelle che con un’espressione bruttissima vengono definite “minori stranieri non accompagnati”, ricordando ogni giorno quanta fiducia e speranza li abbia al contrario accompagnati per affrontare il viaggio che li ha portati da noi e quanta ancora li accompagni ogni giorno nella costruzione del loro futuro.

Don Paolo ha subito notato e condiviso questa cifra nello stile dell’accoglienza: “La Casa della Carità è una famiglia nel senso che accoglie l’altra persona per quello che è, non perché è bella o brutta. È un luogo dove ci si dice: ti amo gratis senza un secondo fine se non quello che tu riconosca quello che sei, con i tempi che ti servono per poi viverlo.” E in questa famiglia non dimentichiamo le 3 parole fondanti che ci ha consegnato Papa Francesco: “permesso?”, “grazie”, “scusa”, con il monito di non considerarle solo parole educate, ma ricche di senso.

Tutto questo è possibile grazie a te, che partecipi ogni giorno alla costruzione di un’accoglienza familiare e inclusiva alle persone accolte dalla Casa della Carità e alle loro famiglie. La tua generosità è fondamentale per continuare a offrire un luogo di accoglienza e speranza alle persone più fragili.

Grazie per la tua vicinanza nella solidarietà e nell’amicizia. GRAZIE per quello che renderai possibile per le persone ospiti della Casa.

Un caro abbraccio,

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