Contaminarsi o non contaminarsi?

Voglio iniziare queste Parole di Carità con un sentimento infinito di gratitudine per Papa Francesco, a cui voglio dire “grazie, perché non hai usato parole per dire da che parte sta Dio, ma ce lo hai fatto vedere! Grazie, perché ci hai detto che il Vangelo non è una morale, ma è profonda liberazione”. E desidero dire grazie anche a Papa Leone, “perché il tuo sì alla preferenza rivolta a te dalla Chiesa, è dire sì al sogno di Dio, che vuole fare nuove tutte le cose (Rerum Novarum). Grazie per ciò che hai scritto su quel block-notes la sera della tua elezione. Lo stringevi tra le mani, come davanti a una commissione d’esame speciale: una umanità ferita in attesa di pace”.


Il titolo di queste Parole di Carità – “Contaminarsi o non contaminarsi?” – non è una domanda che ritroviamo sulla bocca di Gesù, non è parola evangelica. “Contaminarsi o non contaminarsi?” è una domanda che nasce dalla paura di compromettersi, di toccare la ferita degli uomini. È la domanda di chi sta sulla difensiva, di chi pensa di avere qualcosa da difendere. Ma non è forse vero che tutto ciò che abbiamo ci è stato donato? E allora, che cosa mai dovremmo temere di perdere?

Il Dio di Gesù si è fatto carne, ha fatto diventare sua, la nostra carne, le tante “carni”. Non fa differenza tra persone! Anzi, se deve oltrepassare un confine, se deve andare a incontrare la donna e l’uomo sofferenti lì dove sono, non si domanda se è opportuno o meno: l’incontro con l’umanità, soprattutto con l’umanità esclusa e ferita, è sempre opportuna.

È questo lo stile della Casa della Carità: incontrare l’altro – chiunque sia, in qualunque condizione viva – senza difese. Toccandolo e accentando di lasciarsi toccare. Accettando persino lo schiaffo del rifiuto, perché l’incontro vero non si impone.

Il brano del Vangelo di Marco sull’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-20) ci accompagna ancora una volta. Per la prima volta Gesù, insieme ai discepoli, si lascia alle spalle la Giudea e s’inoltra dall’altra parte del Giordano, nella regione dei Geraseni. Qui incontra un uomo segnato da una sofferenza profonda, abitato dalla rabbia, costretto a vivere nascosto nei sepolcri. È spogliato di tutto: di una casa, di una comunità, della propria dignità; la sua vita è più simile a quella degli animali che a quella di una persona. Ma ciò che colpisce è il conflitto che abita quest’uomo: da una parte il desiderio di uscire dallo stato in cui la sua vita è stata prostrata, da quella condizione disumana; dall’altra una sorta di abitudine al male, una strana complicità con ciò che lo tiene prigioniero. Quasi che il suo stare male sia diventato per lui una sicurezza. Quante volte lo vediamo anche nella nostra quotidianità alla Casa: persone ferite, chiuse nel dolore che le abita, al quale a volte non riescono a rinunciare, perché è l’unico linguaggio che conoscono, l’unico spazio dove si sentono protette dalla delusione.

Gesù, però, non si lascia fermare da questa ambiguità. Non chiede chiarezza, semplicemente si avvicina e resta in ascolto.

Dare un tempo, uno spazio, un nome anche a chi sembra averli perduti può aprire spiragli impensati di guarigione. È ciò che cerchiamo di vivere ogni giorno alla Casa. Come con Sam, che dormiva sotto un ponte di Milano tra i rifiuti, la sporcizia, sempre da solo. Solo quando ha incontrato la delicatezza dei nostri operatori Donatella De Vito e don Andrea Lamperti, che si sono seduti sul marciapiede insieme a lui tante volte, ha accettato di venire alla Casa per farsi una doccia e infine di essere accolto in via Brambilla.

E, come diceva il Cardinal Martini in un intervento al Convegno “La cittadinanza è terapeutica” del 2002: “Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi”.

C’è poi un dettaglio nell’episodio dell’indemoniato che non possiamo ignorare: quando Gesù scaccia i demoni, li manda nei porci e questi si gettano dalla rupe. Per la gente del villaggio è una perdita economica, e per questo chiedono a Gesù di andarsene. È un passaggio che mi colpisce sempre: prendersi cura della sofferenza ha un costo e non si può lasciare solo alla buona volontà. Serve un investimento umano, scientifico, economico. Dev’esserci una scelta concreta, collettiva, che dice quanto valgono davvero le vite più fragili.

La fragilità, soprattutto quella psichica, ci pone davanti a questa sfida con urgenza e ci interroga: siamo capaci di stare accanto a chi fatica a spiegarsi, a chi non riesce a “guarire” secondo i nostri tempi, i nostri canoni e le nostre attese? Siamo disposti a perdere qualcosa – tempo, energia, certezze – per lasciarci coinvolgere, per lasciarci contaminare? Padre Elia Citterio scriveva: “Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio”. È una chiamata radicale. Un invito a riconoscere in ogni volto, anche e soprattutto quello segnato dalla sofferenza mentale, la possibilità di un incontro con Dio. Ma per farlo, bisogna esserci. Con pazienza. Con rispetto. Con umiltà. E con fiducia.

Ti ringrazio perché so che tu, come noi, ti impegni per costruire una comunità che non esclude nessuno, nemmeno chi ha difficoltà a esprimere i propri bisogni, i propri desideri e i propri sogni. GRAZIE DI CUORE per ciò che potrai fare per accogliere, con delicatezza, chi soffre nell’animo ed è rimasto solo.

Un saluto affettuoso,

firma don Paolo Selmi

Clicca qui per leggere gli scorsi numeri del Parole di Carità.